La politica britannica negli ultimi anni ci ha regalato talmente tanti colpi di scena che ormai si rischia di sembrare esagerati nell’usare termini come “giornata storica”. Eppure, come si potrebbe definire in altro modo una giornata in cui la Corte suprema, all’unanimità, giudica «illegittima, nulla e senza effetti» una decisione del governo?

Parliamo della decisione di Boris Johnson di “prorogare” la pausa del Parlamento per cinque settimane. Gli undici giudici della più alta corte del Paese hanno stabilito che il “consiglio” del primo ministro alla regina andasse contro la legge e, di conseguenza, hanno considerato nulla la sospensione del Parlamento che quindi, tecnicamente, non è stato mai sospeso. Di fatto, i giudici hanno stabilito che il primo ministro ha violato la legge.

La clamorosa decisione è stata annunciata nella mattinata di ieri causando una vera e propria rivoluzione dell’agenda politica. Johnson si trovava infatti a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre Jeremy Corbyn e tutto il Partito laburista erano impegnati nella conference annuale a Brighton.

Il presidente della Camera, il dimissionario John Bercow, ha immediatamente convocato il Parlamento per oggi alle 11.30 obbligando Johnson a rientrare da New York e Corbyn ad anticipare il suo discorso alla conference previsto per oggi.

Il leader laburista ha chiesto le dimissioni di Johnson mettendo però in chiaro che deve prima rispettare la legge approvata due settimane fa che lo obbliga a chiedere un rinvio della Brexit, per evitare quello che ha definito il disastro del No Deal. Sempre sul fronte della Brexit, Corbyn ha annunciato la nuova linea approvata lunedì in una conference piuttosto accesa sul tema: prima di tutto occorre impedire il No Deal e obbligare il governo a chiedere un’ulteriore proroga all’Europa. Dopodiché, una volta svoltesi le elezioni (che i laburisti si augurano di vincere), assicurare entro tre mesi un nuovo accordo con l’Unione Europea che preveda una soft Brexit, preservando cioè uno stretto legame con i ventisette Paesi membri. Entro i due mesi successivi questo accordo verrebbe sottoposto al vaglio dell’elettorato con un nuovo referendum che preveda la possibilità di scegliere di rimanere nell’Unione e annullare la Brexit. Il Labour deciderà quale linea adottare su quel referendum con una conference straordinaria di un giorno in cui verrà votata la posizione ufficiale.

Corbyn ha dovuto mettere tutto il suo peso su questa posizione, chiedendo anche il supporto dei sindacati (decisivi nel voto grazie ai milioni di iscritti e che “pesano” dunque più dei soli iscritti del Labour), questo perché molti, anche tra i suoi alleati, volevano che la conference approvasse una mozione che impegnasse già da subito il Labour a schierarsi per il Remain. Questa mozione è stata bocciata con una maggioranza non proprio schiacciante e tra le proteste dei sostenitori, che per diversi minuti hanno contestato la decisione della presidenza e chiesto che il voto non si tenesse per alzata di mano, ma con votazione attraverso le apposite schede. La protesta però è stata smorzata dalla grandissima maggioranza con cui la sala ha approvato le due mozioni a sostegno della linea di Corbyn, che è dunque uscito rafforzato da una situazione che sembrava poterlo mettere molto in difficoltà.

Per il momento il leader laburista potrà portare avanti la sua linea e in questo modo potrà, almeno questa è la sua intenzione, non rivolgersi solo ai sostenitori del Remain, ma anche a coloro che hanno votato per uscire dall’Unione. A loro, dice Corbyn, il Labour è in grado di proporre una valida alternativa al disastro del No Deal che sia però rispettosa del risultato referendario del 2016.

Molte personalità del Labour, a partire dai più importanti membri del suo gabinetto ombra, hanno però annunciato apertamente che quando arriverà il momento faranno campagna per rimanere nell’Unione. È dunque un tema sul quale il Labour continuerà a discutere e con una certa veemenza nei prossimi mesi.

Più difficile capire invece quali saranno le ripercussioni sui Tories di questo ennesimo sconvolgimento: Johnson formalmente non ha più la maggioranza in Parlamento, ha perso tutti i voti finora tenuti a Westminster ed è stato pesantemente smentito dalla più alta corte del Paese. Allo stesso tempo però le elezioni anticipate difficilmente potranno essere rimandate per più di qualche settimana e l’idea di sostituire Johnson in questo momento, a pochi mesi dalla sua elezione a furor di popolo, sicuramente è vista come molto rischiosa da parte del gruppo parlamentare conservatore.

C’è dunque la possibilità che questa novità venga utilizzata dal primo ministro come occasione per alzare ulteriormente i toni della retorica antisistema, dipingendosi sempre di più come unico difensore della volontà del popolo di uscire dall’Unione.

In fin dei conti l’intenzione di Johnson è chiara: ottenere l’uscita dall’Unione senza accordo oppure tenere delle elezioni che siano incentrate solo sulla Brexit. Che è l’esatto opposto di quello che vuole Corbyn, il quale però non può chiedere immediatamente la caduta del governo senza che questo prima chieda l’estensione dei termini di uscita dall’UE, altrimenti il No Deal sarebbe automatico.

Oggi riaprirà il Parlamento e ricomincerà una partita a scacchi molto complicata, in cui Johnson pare sotto scacco, ma nella quale ha dalla sua parte una delle risorse più preziose: il calendario. Che si avvicina a grandi falcate verso il 31 ottobre.

Immagine: Boris Johnson (24 luglio 2019). Crediti: Michael Tubi / Shutterstock.com

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