Le elezioni di medio termine rinnovano l’intera Camera dei rappresentanti – 435 seggi per i quali si vota ogni due anni, siamo alla 115a legislatura – e circa un terzo del Senato, per la precisione 35 seggi (il mandato senatoriale dura sei anni). In questo 2018, inoltre, si voterà per eleggere 39 governatori e altrettante assemblee del livello statale. Avvicinandosi alla data del voto si rafforzano le previsioni che vedono favoriti i democratici nella corsa alla Camera dei rappresentanti, mentre rimane incerta quella del Senato. In questo momento il Partito repubblicano controlla la Camera con 236 seggi, ma il sistema politico americano ha sempre punito il partito del presidente nelle elezioni di midterm.

Dal 1910 a oggi, solo tre presidenti hanno visto aumentare i voti del proprio partito nelle elezioni di medio termine: Franklin D. Roosevelt nel 1934, Bill Clinton nel 1998 e George W. Bush nel 2002. Per quel che riguarda la Camera tutto lascia presagire che anche queste elezioni vadano secondo tradizione. Non vale lo stesso discorso per il Senato, anche se la maggioranza repubblicana è più risicata: 51 repubblicani, 47 democratici e 2 indipendenti. A vedere i numeri potremmo supporre che per i democratici l’impresa sia tutt’altro che impossibile, ma in realtà dobbiamo considerare che dei 35 seggi in gioco ben 23 riguardano i democratici – 23 incumbents, senatori in carica – e il resto sono per lo più repubblicani piuttosto solidi, con la notevole eccezione del seggio senatoriale del Texas, nel quale Beto O’Rourke sfida Ted Cruz.

Nel caso del Senato si tratta di un quadro conservativo, che ci ricorda una quasi-legge del sistema politico americano, ovvero che gli incumbents godono di un enorme vantaggio: per via di una maggiore visibilità; di alleanze consolidate con i loro finanziatori, i gruppi di interesse e colleghi di partito; del controllo di una macchina organizzativa ben oliata; della possibilità di disegnare i confini del collegio elettorale nel modo a loro più conveniente (tra poco ritorneremo su questo punto); della scarsa partecipazione al voto, con regole che scoraggiano gli elettori pigri o nuovi (spesso i più poveri e i meno acculturati). Accade così, a volte, che alcune elezioni si svolgano senza sfidante o con figure di bandiera, perché semplicemente non conviene sprecare soldi e tempo contro un candidato imbattibile. Da un lato le elezioni di medio termine permettono un certo ricambio nei seggi in bilico, soprattutto se l’opposizione e il malcontento per il presidente sono più forti (in fondo, si tratta di elezioni con basi elettorali diverse, che votano in percentuale e con motivazioni diverse); dall’altro, il ricambio interno ai partiti è solitamente piuttosto modesto.

Alcuni commentatori sottolineano come la vittoria dei nuovi candidati democrats nelle primarie del loro partito – contro eletti in carica – sia più simbolica che reale, ma si omette che appare straordinaria proprio alla luce della natura del sistema politico americano (e riguarda anche i livelli locali, che qui non abbiamo analizzato). Come spesso accade negli USA, il sistema elettorale formalmente e apparentemente fornisce importanti strumenti democratici di controllo e selezione della classe politica (in questo caso le primarie e il voto ogni due anni), ma mostra una realtà nella quale si determinano fortissime posizioni di rendita, che hanno generato un sistema di ereditarietà dei seggi (quante famiglie nella politica americana…) e tempi molto lunghi di permanenza in carica: già nel 1989, un articolo del New York Times denunciava gli eccessi di carriere parlamentari lunghe trenta o quaranta anni (sempre un male? dipende…).

Alcuni scienziati politici statunitensi parlano di congressional stagnation, un fenomeno che si manifesta nel tasso di rielezione dei deputati americani, attorno al 90% («più facile per un incumbent morire in carica che essere sconfitto alle urne», ha dichiarato l’ex senatore repubblicano Tom Coburn, favorevole all’introduzione di un limite di mandato). Chiariamo con i numeri: nel 2018 le primarie hanno confermato – per entrambi i partiti – il 100% dei senatori, il 99% dei deputati e il 95% dei governatori in carica, in media con il tasso di rotazione delle elezioni americane. Eppure alcune sconfitte sono state memorabili, ed è giusto raccontarle. Senza mai dimenticare che gli americani, alle elezioni di medio termine, votano molto poco (per diverse ragioni, che ora non possiamo descrivere tutte insieme): mentre per le presidenziali la partecipazione si attesta attorno al 60%, è ormai tradizione che quella del medio termine non superi il 40%. Nel 2014, si è toccato il livello più basso degli ultimi settanta anni, con il 36,4%.

Vi sono poi due ragioni per tenere sott’occhio il voto dei governatori, tutt’altro che secondarie, anche se appaiono come delle tecnicalità. Come detto, votare a volte appare superfluo, poiché le elezioni sembrano decise in partenza non solo per la forza degli incumbents, ma anche perché negli USA esiste un fenomeno chiamato gerrymandering__, che altro non è che la possibilità di ridisegnare i collegi elettorali – in base a calcoli eminentemente politici – da parte delle assemblee e dei governi dei singoli Stati.

Ogni dieci anni – in corrispondenza con l’estensione del censimento statistico della popolazione USA, redatto dal Census Bureau – si ridisegnano le mappe elettorali del Paese e si riattribuiscono i seggi del Congresso in base alle variazioni demografiche intercorse nel decennio: poiché è un organo politico a disegnare le mappe elettorali, si può immaginare con quali logiche si proceda a questa operazione (se i democratici hanno la maggioranza in uno Stato, per esempio, tendono a rendere i collegi omogenei attorno ai gruppi e ai segmenti sociali che li sostengono; viceversa per i repubblicani). I governatori e gli Stati si occupano di definire anche le regole attraverso le quali si può esercitare il diritto di voto: anche in questo caso può accadere di tutto, con i democratici che promuovono regole che rendano più semplice registrarsi nelle liste elettorali e i repubblicani che tentano di fare il contrario. Per questi due motivi è molto importante tenere d’occhio anche le elezioni dei 39 governatori: chi vincerà si occuperà di guidare il processo di redistricting dei collegi elettorali da qui al 2022. E non si tratta di una cosa da poco.

Crediti immagine: United States House of Representatives or Office of the Speaker of the House, speaker.gov and Speak Paul Ryan on Facebook

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