Brexit, elezione di Trump e referendum italiano: un unico filo della storia sembra collegare questi tre eventi ravvicinati sul versante europeo e occidentale.

L’interpretazione prevalente si sofferma, con preoccupazione, sulle nuove forme di populismo politico che scagliandosi contro le elitè, l’Europa o la globalizzazione, a seconda della sponda dell’Atlantico, sfruttano tutte le occasioni e le regole democratiche per procedere alla presa del potere in buona parte dei paesi occidentali.

In realtà, al di la di alcuni inattesi e quantomeno singolari commenti che chiamano in causa il suffragio universale, si tratta di processi democratici che derivano, anche con una certa logica, da scelte politiche ben definite, risultate fallimentari come nel caso della Brexit e del referendum costituzionale, oppure vincenti come nel caso della vittoria di Trump alle elezioni americane.

Elemento comune è il disagio di ampie fasce della popolazione occidentale, che vive per la prima volta dal secondo dopoguerra la riduzione delle aspettative per il futuro proprio e per quello delle generazioni successive e si scontra con disuguaglianze crescenti che cozzano con i più naturali sentimenti di giustizia ed equità, generando paura ed insicurezza, oltre che rifiuto del diverso.

Tale disagio è stato al centro della strategia elettorale della squadra di Trump che ha puntato proprio sull’individuazione di quegli elettori, in particolare i lavoratori bianchi della classe media (ma non solo) negli stati chiave della Rust Belt cuore del vecchio manifatturiero americano, spiazzati dalla crisi e ancor di più da un lungo declino delle condizioni economiche e di vita accentuato dalla delocalizzazione produttiva e dalla concorrenza di nuovi sistemi industriali a partire da quello cinese.

Al contrario, nei due referendum, inglese e italiano, le difficili condizioni materiali di una larga parte dei cittadini non sono state adeguatamente considerate, né al momento della promessa della loro indizione, quasi obbligata per Cameron per tentare di vincere la campagna elettorale del 2015 (meno per il governo italiano), né durante le campagne referendarie. Con tutte le differenze del caso tra contesti, tipologia e contenuti dei referendum e sebbene i risultati siano stati di portata molto diversa, serrato nel caso inglese, estremante chiaro nel caso italiano, il leave e il No sembrano provenire in particolare, ma non esclusivamente, dalle fasce di maggiore sofferenza economica e sociale della popolazione, che dotate della possibilità democratica di esprimersi segnalano in qualche modo la necessità di un cambio di rotta.

Quello che viene identificato come un nuovo populismo anti-establishment appare in questa chiave per certi versi come la rappresentazione istituzionale di una rivolta pacifica contro condizioni e soprattutto prospettive non più accettate.

L’individuazione di grandi obiettivi polemici, l’Unione Europea al di qua dell’Atlantico e la globalizzazione sull’altra sponda, costituisce per partiti o movimenti politici vecchi e nuovi lo strumento retorico per focalizzare un nemico e per intercettare questa richiesta politica (e di politiche) che viene dal basso.

L’Unione europea e la sua architettura istituzionale non sono immuni da critiche che richiedono un ripensamento profondo probabilmente di natura costituente. Così come è da ripensare l’iperglobalizzazione che ha determinato, come ampiamente analizzato e discusso da vent’anni a questa parte, disuguaglianze in aumento, fratture sociali, un numero crescente di “vinti” nei paesi avanzati che oggi evidenziano il loro malcontento, oltre a una sensazione di impotenza delle autorità sovrane a fronte di una finanza imperante e di imprese transnazionali che fanno arbitraggio tra i sistemi di regole nazionali a loro più convenienti.

Se da un lato, infatti, a partire dagli anni ’80 l’ultima ondata di globalizzazione ha consentito a oltre 700 milioni di persone di uscire dalla povertà nei paesi emergenti, dall’altro l’accelerazione determinatasi dalla fine degli anni ‘90 in particolare con una deregolamentazione spinta in particolar modo finanziaria e il ritorno sulla scena mondiale di un player di dimensioni assolute e di capacità strategica come la Cina – che già preoccupava Napoleone – in grado di diventare in meno di 15 anni la principale manifattura globale ha modificato radicalmente i rapporti di forza economici e politici.

Si è assistito a una sorta di grande redistribuzione globale del lavoro (o quantomeno delle prospettive del lavoro) e delle classi medie a favore dei paesi emergenti e emersi e a un progressivo impoverimento di fasce della popolazione, oltre al depauperamento di capacità e competenze di parte del tessuto produttivo, nei paesi avanzati che deve essere adeguatamente affrontato con tutti gli strumenti utili di politica economica, di welfare e delle relazioni internazionali.

Al di la dei cheerleaders della globalizzazione, per dirla a la Rodrik, così come di quelli dell’Unione europea tal quale, che vedono questi fenomeni come una necessità della storia e non come il risultato di processi storici, la crisi economia globale del 2008 ha aperto un nuovo momento di dibattito, coincidente con l’emersione degli elementi di sofferenza presenti in Europa e negli Stati Uniti e la ritrovata consapevolezza dell’opinione pubblica sul ruolo politico degli Stati nell’economia e nella costruzione delle regole e delle istituzioni globali.

In questa fase storica, senza considerare le varie temperie geopolitiche, è tornata evidente la realtà del confronto tra grandi potenze sui temi economici, in particolare tra USA e Cina dove con Obama, autodefinitosi primo presidente del pacifico, è stata cercata con il trattato TPP (Trans-Pacific Partnership) una strategia di contenimento economico della Cina, mentre con Trump pare avviarsi una fase di confronto più diretto. Sulla sponda europea invece cresce la consapevolezza che le distorsioni dell’architettura istituzionale dell’Unione stanno rafforzando le posizioni dei paesi più forti, Germania in primis, e determinando di conseguenza percorsi divergenti tra paesi, che si scaricano sulle condizioni materiali dei cittadini.

Nel momento in cui lo stesso concetto di Europa è al vaglio e la globalizzazione ha già assunto una forma diversa, con la Cina che guarda più al suo interno e il commercio internazionale che rallenta la sua espansione frenato da tassi di crescita globali più contenuti, è quindi entrata progressivamente in discussione una certa retorica neoliberale, termine che probabilmente farebbe rivoltare liberali veri come Keynes e Beveridge, rilegittimando a contrario quell’insieme di politiche attive per lo sviluppo e la difesa dei sistemi produttivi e del lavoro degli stati sovrani che datano forse la loro origine nel Rapporto sulla Manifatture del 1791 di Alexander Hamilton e che da metà degli anni ’70 sono state disconosciute nella teoria, sebbene continuamente praticate.

Con questi ritrovati gradi di libertà intellettuale, vanno cercate risposte nuove alle grandi sfide economiche globali e ai bisogni delle persone che non immaginano più il futuro di una volta, cercando un nuovo equilibrio tra globalizzazione, democrazia e Stato-nazione, come giustamente sostenuto da Savona e Farese, che garantisca la varietà dei percorsi economici ed istituzionali dei diversi sistemi, consentendo loro di dare risposte politiche alle richieste dei propri cittadini. Altrimenti si che le risposte verranno da un populismo duro e irrazionale e non piaceranno alla lunga a nessuno.