La decisione è presa, in linea con le anticipazioni delle ore precedenti e soprattutto con quanto promesso durante la campagna elettorale.

Sono le 13.07 del 6 dicembre a Washington quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump prende la parola dalla Diplomatic Reception Room della Casa bianca, preparandosi a formalizzare quell’annuncio che – già alla vigilia del suo discorso – aveva messo in allarme i grandi attori dello scenario mediorientale e le cancellerie occidentali: gli USA riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e procederanno al trasferimento in città della loro ambasciata attualmente situata a Tel Aviv. La questione è di estrema delicatezza e sensibilità, perché attorno allo status di Gerusalemme/el-Quds si sono accese rivalità e consumati conflitti: la presidenza statunitense non lo ignora, ma Trump rivendica di essersi insediato alla Casa bianca assicurando un ‘nuovo approccio’ alle grandi sfide internazionali, perché le strategie adottate in passato non hanno prodotto i risultati auspicati.

Per spiegare questo ‘nuovo approccio’, il presidente parte dal Jerusalem Embassy Act, il provvedimento con cui il Congresso – nel 1995 – sollecitava il governo federale a spostare a Gerusalemme l’ambasciata statunitense e a riconoscere la città come capitale dello Stato d’Israele. Da allora, per oltre 20 anni, i presidenti hanno però firmato ogni sei mesi un atto di temporanea ‘rinuncia’ a rendere pienamente operative quelle disposizioni: secondo qualcuno – osserva Trump – ai suoi predecessori è mancato il giusto coraggio, o semplicemente i loro giudizi si sono basati su come essi interpretavano allora la questione; ma questa impostazione ha fallito nell’obiettivo di assicurare un accordo di pace solido e duraturo tra Israele e i palestinesi. Dunque, è giunto il momento di cambiare prospettiva e di sancire ufficialmente ciò che – secondo il presidente degli Stati Uniti – oggi risulta ovvio: a Gerusalemme hanno sede il Parlamento israeliano – la Knesset – e la Corte suprema, nonché le residenze del primo ministro e del presidente della Repubblica. La città inoltre – sottolinea il presidente – non è più soltanto «il cuore di tre grandi religioni», ma anche «la casa di una delle più importanti democrazie del mondo», nella quale «ebrei, musulmani e cristiani sono liberi di vivere secondo la loro coscienza e di pregare per ciò in cui credono». Se dunque i suoi predecessori hanno deciso di non riconoscere la realtà – ribadisce Trump – la sua amministrazione intende correggere la rotta, disponendo anche l’avvio delle procedure – con l’assunzione di ingegneri, architetti e la definizione di un progetto – per la costruzione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme.

L’inquilino della Casa bianca precisa però che tale decisione non modifica in alcun modo l’impegno statunitense per il raggiungimento di un accordo tra Israele e i palestinesi, né sta a significare che Washington abbia preso una posizione sui limiti della sovranità israeliana su Gerusalemme oltre che sugli altri confini oggetto di disputa. L’obiettivo resta dunque quello della pace per Israele, la Palestina e tutto il Medio Oriente; un obiettivo che il vicepresidente Mike Pence confermerà nel suo imminente viaggio nella regione. Quanto alla soluzione dei due Stati, essa resta sul tavolo e sarà gradita agli Stati Uniti se le parti la concorderanno.

Già prima dell’annuncio – quando gli orientamenti di Washington erano comunque sufficientemente noti – le prese di posizione in senso contrario al nuovo approccio statunitense non erano mancate: tra gli alleati occidentali, il presidente francese Emmanuel Macron – contattato telefonicamente da Trump – non aveva nascosto la sua preoccupazione, sottolineando come la questione dello status di Gerusalemme debba essere inquadrata nel più ampio contesto del negoziato di pace israelo-palestinese e della two-State solution, con due Paesi che convivono pacificamente e in sicurezza.

Anche il Regno Unito – tra i più solidi partner statunitensi – si era detto preoccupato dell’imminente annuncio e, dopo il discorso di Trump, è stata la stessa Theresa May a sottolineare come la decisione di Washington non sia di aiuto per le prospettive di pace nella regione mediorientale. Dello stesso tenore le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, che ha rimarcato come le aspirazioni di entrambe le parti vadano soddisfatte e sia indispensabile individuare – attraverso la strada del negoziato – una soluzione sullo status di Gerusalemme come futura capitale sia dello Stato israeliano che di quello palestinese.

Dal Medio Oriente, era stato il re giordano Abd Allah II – tra i principali alleati di Washington nella regione – ad ammonire sui rischi legati alla decisione, foriera di pesanti ripercussioni sulla stabilità e la sicurezza dell’area. Anche il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, parlando al telefono con Trump, aveva invitato il suo omologo statunitense a non adottare determinazioni che avrebbero reso più difficoltoso il cammino verso la pace, sottolineando come Il Cairo rimanesse fedele alla posizione in base alla quale la questione dello status di Gerusalemme debba essere risolta nel suo quadro di riferimento internazionale. Decisamente più esplicito nelle sue considerazioni il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, secondo cui l’annuncio di Trump metterebbe la regione in un cerchio di fuoco e farebbe il gioco dei terroristi, consentendo loro di recuperare un argomento potenzialmente formidabile – e peraltro già utilizzato – per la loro propaganda. In precedenza, il capo dello Stato turco si era addirittura spinto oltre, rivestendo i panni di ‘avanguardia’ della causa palestinese e minacciando la rottura delle relazioni diplomatiche con Israele se effettivamente l’annuncio statunitense fosse arrivato. Quanto però questo rientri nelle reali prospettive di Ankara – che ha faticosamente normalizzato i suoi rapporti con Tel Aviv dopo una prolungata rottura per l’incidente della Mavi Marmara – non è facile da prevedere.

Di particolare interesse sono poi le parole giunte da Riyad, con la famiglia reale che ha espresso il suo ‘profondo dispiacere’ per una decisione che potrebbe produrre ‘pericolose conseguenze’ per il Medio Oriente. Ed è su questo punto che la rilevanza geopolitica della questione emerge con particolare forza: da tempo infatti, si discute delle relazioni tra Jared Kushner – genero del presidente Trump e suo uomo di fiducia nel processo di pace mediorientale – e l’erede al trono saudita Muhammad bin Salman. Che l’asse Washington-Riyad passi per Tel Aviv in funzione di contrasto del dinamismo iraniano nel Medio Oriente, è questione centrale nelle cronache regionali. Nei giorni scorsi, la stampa aveva addirittura diffuso i dettagli di un presunto piano di statualità palestinese presentato dal principe erede saudita ad Abu Mazin, con l’esercizio di prerogative sovrane su porzioni complessivamente limitate di territorio e capitale dello Stato presso Abu Dis, a est di Gerusalemme. Dunque, una vittoria di Israele su tutta la linea, a testimonianza di come per Riyad la questione palestinese sarebbe passata in secondo piano. L’Arabia Saudita, dal canto suo, ha smentito categoricamente di aver formulato la proposta, certamente consapevole del fatto che una posizione simile rappresenterebbe uno sbilanciamento a favore di Israele difficilmente accettabile dall’opinione pubblica di gran parte della regione. Che Riyad possa spingersi a tanto in funzione anti-iraniana, è un punto assai controverso nelle complesse dinamiche geopolitiche regionali.

Quanto al fronte palestinese, impegnato in una delicata operazione di ricucitura tra le sue anime, è probabile che Abu Mazin sia spinto dalla decisione di Trump su posizioni più dure, anche per provare a consolidare la sua assai traballante credibilità interna: e infatti, il presidente palestinese ha dichiarato che l’annuncio mette la parola fine alla prospettiva dei due Stati e alimenta gli estremismi. Di «segnali di incompetenza e fallimento», già prima dell’annuncio, aveva parlato la Guida suprema iraniana Ali Khamenei, mentre il presidente Hassan Rohani aveva avvertito che una presa di posizione come quella di Trump non sarebbe stata tollerata.

Intanto, le autorità palestinesi hanno proclamato uno sciopero generale, mentre il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha chiamato a una nuova Intifada.

Gli esiti delle manifestazioni di protesta che presumibilmente proseguiranno nei prossimi giorni non sono al momento prevedibili. Netanyahu ha parlato di ‘decisione storica’, ma le fiamme in Medio Oriente potrebbero farsi ancora più incandescenti di quanto già non lo siano.

Trump però può dichiarare – come ha già fatto – che a differenza dei suoi predecessori le promesse elettorali le mantiene, in questo caso verso quella frangia di elettori ebrei più oltranzisti e degli evangelici che tanto hanno sostenuto la sua corsa alla Casa bianca.

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