«Ciascuno Stato nomina, nel modo prescritto dal suo Legislativo, un numero di Elettori pari al totale dei Senatori e dei Rappresentanti ai quali lo Stato abbia titolo nel Congresso». La Costituzione degli Stati Uniti specifica con chiarezza (art. 2, sezione 1) la modalità del collegio elettorale che elegge ogni quattro anni il presidente. Nel farlo crea un filtro – quello del collegio elettorale – con il quale diversi obiettivi dovevano in teoria essere raggiunti: evitare un ruolo elettivo diretto del Congresso, che avrebbe creato un’interdipendenza insalubre e potenzialmente corruttiva tra Esecutivo e Legislativo; prevenire un’elezione popolare che avrebbe messo il processo di scelta del presidente nelle mani di un elettorato considerato volubile, emotivo e impreparato; contenere le tentazioni “monarchiche” di un presidente che non si sarebbe così potuto appellare alla volontà popolare.

Sul metodo di selezione di questi elettori nulla viene detto se non che si tratta di una competenza degli Stati. I quali sperimentarono diversi sistemi prima di adottare il modello del vincitore pigliatutto oggi in vigore in 48 dei 50 Stati dell’Unione (le due eccezioni sono il Maine e il Nebraska, dove 2 elettori sono attributi al vincitore del voto statale e gli altri – 2 per il Maine e 3 per il Nebraska – in base all’esito del voto nei collegi congressuali dei due Stati). Un modello, questo, scelto per ragioni strettamente partigiane: per massimizzare il risultato del proprio candidato in un dato Stato, con un effetto domino divenuto poi incontrollabile (la prima elezione in cui la maggioranza degli Stati scelse questo sistema fu quella famosa, del 1824, nella quale John Quincy Adams venne infine eletto dalla Camera pur avendo ottenuto meno elettori – 84 a 99 – di Andrew Jackson).

È un sistema elettorale, quello delle presidenziali statunitensi, che produce oggi due evidenti cortocircuiti democratici. Il primo è che rende elettoralmente più pesanti i residenti degli Stati minori, visto che ogni Stato – a prescindere dalla sua popolazione – elegge due senatori/elettori. In Wyoming, si ha un grande elettore ogni 190.000 abitanti; in California il rapporto è di un elettore ogni 720.000 abitanti. Il secondo è che limita la competizione – e quindi l’attenzione prioritaria delle campagne elettorali – a quegli Stati, i famosi Swing States, dove entrambe le parti hanno una chance effettiva di vittoria. Un pacchetto di elettori è già di fatto determinato e assegnato. Sappiamo bene, ad esempio, che i repubblicani non hanno alcuna chance di vittoria in California o nello Stato di New York e i democratici partono battuti in Louisiana o in Oklahoma.

Gli Swing States sono invece quegli Stati nei quali i due partiti hanno simili livelli di consenso se misurati in termini d’iscritti, risultati elettorali nelle ultime tornate ‒ presidenziali, congressuali o statali – e proiezioni dei sondaggi. Se prendiamo il voto del 2016 e, con un certo tasso di arbitrarietà, stabiliamo che gli Swing States sono stati quelli dove la differenza tra i due candidati è risultata inferiore al 5%, allora ne individuiamo undici: Arizona, Colorado, Florida, Michigan, Minnesota, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Pennsylvania, Virginia, Wisconsin, Maine. A questi si possono forse aggiungere in prospettiva 2020 la Georgia (vinta da Trump col +5,13% e dai repubblicani, per il governatorato nel 2018, con appena l’1,4%), l’Ohio (vinto largo da Trump, ma tradizionalmente conteso), il New Mexico e – ma questo appare ancora molto futuribile ‒ il Texas, che Trump vinse con uno scarto del 9%, ma che è soggetto a profonde trasformazioni politiche e demografiche, da una crescita dell’elettorato ispanico e da numerosi successi democratici nelle grandi aree metropolitane (democratici sono oggi, ad esempio, i sindaci di tre delle quattro più grandi città texane ‒ Houston, Dallas, Austin; nella quarta, San Antonio, il sindaco è un indipendente).

Si tratta in sostanza di Stati che cadono in maggioranza in due grandi blocchi regionali: il Midwest industriale e postindustriale e la Sun belt, tradizionalmente repubblicana, ma teatro oggi di cambiamenti demografici e politici profondi, ancorché graduali nei loro effetti elettorali.

Cosa ci dice tutto ciò rispetto al voto del novembre prossimo? Due sintetiche risposte possono essere offerte.

La prima è che la mappa elettorale avvantaggia ancora (e chiaramente) Trump. È un vantaggio strutturale quello dei repubblicani, sovrarappresentati grazie a un sistema di voto che premia appunto gli Stati più piccoli e meno urbanizzati. Dal 1992 a oggi, su sette tornate elettorali i repubblicani hanno conquistato il voto popolare in una sola occasione (nel 2004). Incide, certo, un sistema che non induce i repubblicani a cercare voti in Stati grandi nei quali non hanno possibilità di vittoria. Ma lo scarto è nondimeno significativo e visibile anche nel voto per la Camera, dove la distribuzione dei rappresentanti non riflette proporzionalmente quella del voto (e quindi i democratici sono, su scala nazionale, strutturalmente sottorappresentati rispetto alla percentuale di voto ottenuto). Ma è un vantaggio, quello di cui gode Trump, legato anche alla mappa elettorale. Nel 2016 il presidente ottenne 304 elettori, 34 in più della maggioranza necessaria di 270. Al di sopra della quale rimarrebbe pure perdendo una combinazione di Wisconsin e uno tra Pennsylvania e Michigan, i tre famosi Stati del Midwest dove costruì la sua sorprendente vittoria. O perdendo la Florida, Stato cruciale in tante delle ultime elezioni presidenziali. O, addirittura, bilanciando la perdita dei tre Stati del Midwest con una vittoria in Minnesota, dove i sondaggi lo danno competitivo.

La seconda indicazione, però, è che i democratici hanno essi stessi percorsi alternativi alla presidenza che non passino per la riconquista di Michigan e Pennsylvania. North Carolina, Georgia e Arizona, potenziali Swing States vinti da Trump nel 2016, mettono ad esempio in palio più o meno lo stesso numero di elettori di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Sono Stati, questi, dove importante è la presenza di larghi insediamenti suburbani nei quali alle elezioni di midterm del 2018 è di molto aumentato il voto dei democratici.

Molto dipenderà ovviamente dalla piega che prenderà la campagna elettorale, dai temi che domineranno il dibattito e, anche, dal ticket presidenziale che uscirà dalle primarie democratiche. In un sistema elettorale per molti aspetti obsoleto e contro il quale s’indirizza oggi una proposta di riforma – il National Popular Vote Interstate Compact (NPVIC) , sostenuta da varie legislature statali, che impegna gli Stati contraenti ad attribuire i loro elettori a chi abbia ottenuto più voti su scala nazionale. E nel quale alla fine la partita si deciderà in un numero di Stati – tra i 7/8 e gli 11/12 – non superiore al 20% del totale.

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