Nelle tensioni su commercio e tecnologia tra Stati Uniti e Cina, un’azienda ha acquisito un ruolo di primo piano: Huawei. Huawei è stata fondata nel 1987 da Ren Zhengfei, dopo una carriera nell’Esercito popolare di liberazione. Secondo gli Stati Uniti, la crescita dell’azienda cinese nei mercati della telefonia mobile e delle apparecchiature informatiche si alimenta dei rapporti stretti con il Partito comunista cinese e coi suoi apparati militari. Rapporti che Huawei (non quotata e controllata dai dipendenti) ha sempre negato.
È semplicistico credere che il conflitto con la Cina sia “merito” o “colpa” di Donald Trump. L’attenzione delle autorità americane su Huawei ha invece una lunga storia. Nel 2012 la Camera dei rappresentanti pubblica un rapporto sui problemi di sicurezza nazionale posti da Huawei e ZTE (azienda di telecomunicazioni quotata, controllata dal governo cinese). Secondo il rapporto, Huawei e ZTE pongono una minaccia di sicurezza nazionale agli Stati Uniti e ai suoi sistemi, rendendoli vulnerabili all’influenza cinese. Il rapporto raccomanda alle imprese americane di limitare al massimo i rapporti con le due aziende.
Vi sono però tre aspetti che incidono sull’escalation del 2018-19.
Il primo è l’orientamento delle élites degli Stati Uniti, in cui ha perso influenza, in favore dell’apparato di sicurezza, la classe finanziaria (di Henry Paulson di Goldman Sachs, per esempio) che ha guidato l’apertura alla Cina in accordo con Wang Qishan e Zhu Rongji. Inoltre, poiché i cinesi hanno sviluppato le loro soluzioni proprietarie in materia di e-commerce e social media, si è andata riducendo l’esposizione sulla Cina dei giganti digitali americani (con l’eccezione di Apple).
Il secondo aspetto è dato dal cambiamento della retorica cinese negli anni di Xi Jinping, in particolare per quanto riguarda il progetto di puntare su una “innovazione autonoma” che centri di ricerca, imprese pubbliche e private perseguono in modo organico, anche sotto il capello del piano Made in China 2025.
Il terzo riguarda le capacità sviluppate da Huawei: l’entità del fatturato, i progressi nella ricerca e sviluppo, la presenza globale in 170 Paesi, la collaborazione con i principali operatori, il posizionamento nelle tecnologie e standard 5G.
È in questo contesto che il 1° dicembre 2018 avviene l’arresto a Vancouver di Meng Wanzhou, CFO di Huawei e figlia del fondatore Ren Zhengfei. Meng Wanzhou è oggetto di numerose accuse negli Stati Uniti, tra cui quella di aver aggirato le sanzioni all’Iran e in ragione della quale è stata chiesta la sua estradizione. Huawei, da canto suo, contesta le accuse pendenti presso varie corti degli Stati Uniti. È quindi già in corso una guerra giuridica (lawfare) tra gli Stati Uniti e la Cina, con cui Washington mette in atto la cosiddetta “trappola di Tucidide”: la potenza dominante, ancora non impensierita direttamente nell’ambito militare o finanziario, ricorre alla forza per contenere alcuni rischi posti dalla potenza emergente.
Oltre ai casi perseguiti dalle corti, la guerra giuridica coinvolge altri due importanti apparati.
Il primo è il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), che scrutina gli investimenti diretti negli Stati Uniti con implicazioni di sicurezza nazionale, imponendo specifiche condizioni e bloccando le transazioni. Il CFIUS, già intervenuto retroattivamente nel 2011 per un’acquisizione di Huawei, di recente (2016-18) si è concentrato sulle aziende di semiconduttori negli Stati Uniti (fornitrici della stessa Huawei), impedendo che giungessero sotto il controllo cinese o fuori dal controllo americano, come nel caso Qualcomm/Broadcom. La componentistica hardware rimane un fattore di condizionamento per i cinesi.
Il secondo apparato è il BIS (Bureau of Industry and Security) del Dipartimento del Commercio, tassello essenziale del sistema americano di controllo delle esportazioni attraverso le Export Administration Regulations (EAR), che stabiliscono i divieti ai quali devono adeguarsi tutte le società americane. Sia ZTE che Huawei hanno subito l’azione del BIS. La prima nel 2018, quando l’esclusione di ZTE dal commercio con gli Stati Uniti avrebbe implicato il fallimento dell’azienda, scongiurato da un accordo in cui viene di fatto commissariata da un avvocato americano che ne supervisiona tutta la compliance. L’inclusione di Huawei e delle sue imprese affiliate nell’EAR per “coinvolgimento in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti” è del 16 maggio 2019, con pesanti implicazioni sulle forniture di software e hardware. Huawei si impegna su vari fronti: il tentativo di salvaguardare altri mercati, in particolare Europa, Africa e Asia; la disponibilità a lavorare con le agenzie di intelligence per individuare eventuali vulnerabilità; il tentativo di distaccarsi completamente dalle forniture statunitensi (con lo sviluppo interno di hardware e software), da verificare nella sua difficile realizzabilità, anche se coerente con le parole di Ren Zhengfei nel febbraio 2019: «Quando l’Occidente si oscura, è luce a Oriente. Quando è buio a Nord, abbiamo comunque il Sud. Gli Stati Uniti non rappresentano il mondo intero».
Le tensioni tra Stati Uniti e Cina mostrano che le catene globali del valore non sono immutabili. Non esiste alcun potere magico dell’iPhone o di altri prodotti di unire politicamente i Paesi coinvolti nella sua produzione. Le catene del valore sono sensibili, e subordinate, alla “geopolitica della protezione” e all’allargamento della sicurezza nazionale. Sono esposte al sistema sanzionatorio degli Stati Uniti, il più avanzato e occhiuto al mondo.
La “trappola di Tucidide tecnologica” non fa scoppiare bombe. Mette in moto una guerra giuridica. Così riguarda non solo i due contendenti, ma coloro che vi inciampano, e si feriscono. Come i Paesi europei, chiamati a scelte di fondo in cui l’economia è inseparabile dalla geopolitica. O gli studenti e gli ingegneri cinesi, ospiti sempre meno graditi negli Stati Uniti.
Immagine: Il grattacielo di Huawei a Vilnius, Lituania (2 aprile 2016). Crediti: J. Lekavicius / Shutterstock.com
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