Per il Washington Post è un sistema “estremamente efficiente” che ha “cambiato il modo in cui Israele fa esperienza della guerra”. Il quotidiano più diffuso in Israele - Yedioth Ahronot – lo ha ribattezzato in prima pagina “Golden Dome”, la cupola d'oro. E c'è anche chi è pronto ad affermare come finalmente si sia realizzato il visionario progetto di Ronald Reagan quando negli anni Ottanta sognava di rendere i missili “impotenti e obsoleti”.

Quando si parla di Iron Dome, il sistema antimissilistico israeliano finanziato dagli Stati Uniti, è un trionfo continuo di rimandi storici, di numeri e di percentuali da sbandierare in prima pagina. 
Una tecnologia militare a giudicare dai numeri quasi infallibile. Secondo l'agenzia Reuters il 90% dei missili intercettori lanciati dalle postazioni mobili del sistema Iron Dome va a segno. Una percentuale riportata anche da Associated Press che parla di “decisivo vantaggio tecnologico” di Israele e da Foreign Policy, che aggiunge come il sistema Iron Dome abbia “tenuto il paese al sicuro dalle centinaia di razzi lanciati da Hamas” entrando in azione nel 27% dei casi, ovvero solo in presenza di una minaccia diretta verso una zona abitata. Alla “intelligenza” del sistema anti-missilistico israeliano il Washington Post ha dedicato il 15 luglio scorso un articolo in prima pagina, spiegando come “Iron Dome utilizzi algoritmi avanzati per identificare la traiettoria di un razzo, prevedendo all'istante se il razzo sia diretto o meno verso un'area popolata”. Ciascun missile intercettore ha un costo stimato di 20.000 dollari e ce ne vogliono due per intercettare un razzo Qassam – che costa invece 800 dollari ad unità - lanciato da Hamas, mentre per installare una postazione mobile a tecnologia Iron Dome – ne hanno appena installate altre tre e sono dieci in tutto – ci vogliono 50 milioni di dollari, scrive la BBC
Una sproporzione di costi che però non preoccupa Israele né tantomeno gli Stati Uniti, ormai dal 2011 coinvolti direttamente nel progetto – con 720 milioni di dollari già spesi – e che intendono investire sempre di più nello sviluppo della “cupola di ferro”. La Senate Appropriations Subcomittee on Defense – una delle dodici sottocommissioni del senato americano che si occupa di stanziare fondi federali - ha difatti recentemente approvato una legge di spesa con cui raddoppia i fondi destinati ad Iron Dome per l'anno fiscale 2015. Si passa da 175 a 351 milioni di dollari, per una spesa totale di 621,6 milioni di dollari destinati alla difesa missilistica israeliana. “Funziona”, ha dichiarato il senatore democratico dell'Illinois Dick Durbin, a capo della sottocommissione del Senato. Funziona, dicono i numeri ufficiali, ma funziona soprattutto politicamente Iron Dome, in quanto – come scrive il Washington Post - “permette alla popolazione di continuare a vivere normalmente”, e di sopportare come nel caso delle ultime settimane “più di mille razzi senza fare morti tra i civili”. 
È un'arma che non uccide, almeno a giudicare dall'enfasi con cui viene descritta. Ma non solo. È un'arma che – come ricordato in settimana il presidente Obama - “sta salvando delle vite”, e la cooperazione di sicurezza in materia di difesa missilistica - che il presidente definisce “senza precedenti” - sta rendendo “Israele un luogo più sicuro”, ed è la prova tangibile dell'impegno statunitense a fianco di Israele. Non a caso nel 2012 nel corso di un incontro al Pentagono il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak portò come regalo all'allora segretario della Difesa Leon Panetta una replica in miniatura di Iron Dome, ricevendo in cambio una foto dei due in posa in Israele davanti ad una postazione mobile anti-missile. Come ha scritto l'analista militare John Mecklin su The Bulletin, Iron Dome è diventata “l'arma delle pubbliche relazioni”, che si porta dietro una “copertura giornalistica che ha perso contatto con il contesto e frainteso la realtà”. Non si mette in dubbio l'effettiva accuratezza del sistema anti-missile israeliano – scrive Mecklin – ma piuttosto si riportano in maniera sistematica i numeri ufficiali forniti da Israele e dagli Stati Uniti. “Il New York Times non indica il numero preciso dei bersagli colpiti, lasciando che rimanga poco chiara l'effettiva efficienza del sistema Iron Dome”, continua Mecklin citando i casi di CNN e del meno autorevole New York Post
Poco seguito si dà ad altre opinioni che potrebbero invece offuscare il mito dell'efficienza dei missili israeliani. È il caso ad esempio di Ted Postol - esperto di difesa missilistica del MIT – che in un'intervista alla National Public Radio ha dichiarato come “Iron Dome non stia funzionando molto bene”, aggiungendo come “il grado di precisione si attesti intorno al 5%, o anche meno”. In un lungo report Ted Postol ha analizzato la geometria delle scie dei missili nel cielo e in base a questa analisi ha stilato le possibilità di successo di Iron Dome nell'intercettare l'artiglieria di Hamas. In particolare gli studi di Postol ci dicono che per neutralizzare un razzo Qassam Iron Dome deve riuscire a centrare la testata del razzo, e non semplicemente danneggiare il tubo motore nella parte posteriore. Perché questo avvenga, deve esserci un impatto frontale. E dettagliati diagrammi di vettore e formule alla mano, i lanci durante l'offensiva del 2012 hanno prodotto una geometria di lancio frontale solo in casi che vanno dal 10% al 20%. Un dato quest'ultimo che se moltiplicato per la probabilità di distruzione (tra 0,3 e 0,6) fa venir fuori un tasso di intercettazione per la distruzione di un razzo che varia tra il 6% e il 12%, che al netto delle stime sugli effettivi lanci front-on in possesso del professor Postol si riduce ancora: “I dati che sono riuscito ad ottenere mostrano come i lanci a segno di Iron Dome nel novembre del 2012 sono del 5%, o meno, e i dati di luglio 2014 non sono migliori”. 
I ragionamenti e i numeri di Ted Postol potrebbero sembrare troppo audaci, ma quello di Iron Dome non sarebbe il primo caso di percentuali clamorosamente gonfiate durante una guerra in cui sono coinvolti gli Stati Uniti. Come scrive James Fallows su The Atlantic, “non so quale sia la visione giusta, ma c'è un lungo elenco di sistemi militari altamente tecnologici mitizzati nell'immediato e poi successivamente ridimensionati e smascherati”. Il precedente più illustre a cui fare riferimento è quello del sistema anti-missile Patriot – che il MIT definisce “cugino maggiore” di Iron Dome - osannato dalla stampa statunitense per tutta la durata della prima guerra del Golfo, nel 1991. “Il successo dei Patriot è chiaro a tutti, è il 100%”, affermò durante la guerra il generale Schwarzkopf, a capo della coalizione internazionale. E il presidente George H. Bush in visita trionfale alla fabbrica Raytheon – che fornisce ancora oggi i Patriot all'aviazione americana – durante il conflitto disse che “su 41 missili Scud lanciati, ne abbiamo intercettati 42. Grazie Dio per averci dato i missili Patriot”. Ma andò veramente così? No. “Il Patriot non è efficace”, riferì nel 1992 l'ex segretario della Difesa William Perry, nel corso di una audizione davanti ad una commissione del Congresso, rincarando: “non è un sistema anti-missilistico efficace”.
Durante la Guerra del Golfo, le percentuali si rincorrevano e fu un gioco perennemente al ribasso. Si partì inizialmente dal Pentagono che parlò di un 80% di accuratezza dei Patriot nel centrare gli Scud iracheni diretti in Arabia Saudita e di un 50% di quelli diretti in Israele. Numeri che vennero poi ritoccati rispettivamente in 70% e 40%. Nel 1992 però, al termine di dieci lungi mesi di indagini, una commissione d'inchiesta del Congresso – la House Government Operations Subcommittee on Legislation and National Security - concluse che c'erano prove per attestare che i Patriot non avessero colpito più di un paio di Scud. E un'altra inchiesta, del 1992, venne portata avanti dal General Accounting Office – il nucleo investigativo del Congresso degli Stati Uniti – e si attestò come solo nel 9% dei casi i Patriot abbiano effettivamente neutralizzato missili Scud iracheni. Negli altri casi – si legge in un report di PBS - “i Patriot sono andati vicini agli Scud, ma non li hanno distrutti”. 
Dati che provano – come riferisce la ricostruzione di PBS – come la televisione e i giornali abbiano preso un abbaglio nel fidarsi ciecamente delle parole di Bush e di  Schwarzkopf. Ma sono numeri sopratutto che giustificano lo scetticismo di chi come il professor Ted Postol non si fida ciecamente delle percentuali di Iron Dome vicine alla perfezione militare del “one target, one bomb_”_. Il professore del MIT conosce bene la storia, dato che si occupa di sistemi anti-missile dagli anni Ottanta – gli anni delle guerre stellari di Reagan - e ha sfidato già nel 1991 il Pentagono e la Raytheon per aver diffuso percentuali false sulla accuratezza del sistema Patriot. E c'è già chi si chiede, “e se Iron Dome fosse un bluff?”.

Pubblicato in collaborazione con Altitude, magazine di Meridiani Relazioni internazionali

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