Etica luterana e moneta forte. Così la Germania è riuscita nel vero miracolo economico: tornare ad essere la forza trainante del Vecchio Continente dopo la distruzione totale nel 1945. Con il consolidamento del progetto comunitario, il sistema tedesco si è imposto naturalmente fino a far assumere al marco, con il Trattato di Maastricht, un’indiscussa centralità nel nuovo sistema monetario continentale. Tuttavia, per mezzo secolo, il suo peso politico in Europa e nel mondo non è stato proporzionale alla sua forza economica, probabilmente a causa di quel senso di colpa scolpito – ancora oggi, ingiustamente – nell’immaginario collettivo a seguito della Seconda guerra mondiale. Eppure le cose sono iniziate a cambiare a partire dalla caduta del Muro di Berlino e dalla successiva “annessione” della DDR. Il rifiuto di partecipare alla Seconda guerra nel Golfo così come la posizione di neutralità presa in occasione dell’intervento anglo-americano e francese nella Libia di Gheddafi e senza dimenticare il ruolo da mediatore assunto da Angela Merkel nella questione ucraina sono segnali evidenti della volontà di Berlino di ritagliarsi uno spazio geopolitico all’interno di un mondo che da unipolare diventa sempre più multipolare.
La crisi diplomatica apertasi con lo spionaggio dell’intelligence statunitense verso la Cancelliera tedesca durante l’amministrazione Obama è sintomatica dell’attenzione della Germania per ciò che accade a Est del Vecchio continente, dove, tra l’altro, il governo di Berlino si pone come uno dei più agguerriti alfieri dell’isolamento internazionale di Mosca. Almeno pubblicamente, perché in realtà i due Paesi non hanno mai smesso di lavorare insieme per il raddoppio del Nord Stream, l’infrastruttura energetica che, attraverso il Mare del Nord, porta il gas dalla Russia alla Germania bypassando diversi Paesi inseriti nella sfera di influenza statunitense e della Nato: Repubbliche Baltiche, Polonia e Ucraina.
Proprio in occasione dello scoppio della Seconda guerra del Golfo, quando Francia e Germania superarono le tradizionali divergenze per ritrovarsi unite, nel Consiglio di Sicurezza come in Europa, a difesa della pace e contro la guerra voluta da Washington, Henri de Grossouvre, un giovane ricercatore francese di ispirazione gollista, pubblicò un libro intitolato Parigi-Berlino-Mosca. L’avvicinamento tra i due Paesi fu il pretesto per l’autore di lanciare l’idea di estendere la comunità europea verso oriente nella prospettiva di un ingresso di Mosca nell’Unione. La tesi era più o meno questa: sottrarre la Germania dalla sfera atlantica e integrarla in un’area che va da “Brest a Vladivostok” (Charles de Gaulle). In una intervista sul suo libro spiegò, infatti, che “gli Stati Uniti, dal canto loro, non si sono scomposti e hanno lavorato, in questi anni, alla sistematica demonizzazione della Russia di Putin, perché essi sanno che un’Unione Europea continentale fondata sul motore ideale Parigi-Berlino-Mosca li relegherebbe immediatamente al ruolo di potenza secondaria”.
Di recente è stato pubblicato un altro libro intitolato Gerussia (Castelvecchi, pp. 183) che torna sugli stessi argomenti e vale la pena studiare per capire quanto sia importante la convergenza russo-tedesca per i nuovi orizzonti della politica europea. L’autore, Salvatore Santangelo, senza auspicare un nuovo patto Molotov-Ribbentrop, spinge ad andare oltre le divisioni del passato: “Gerussia” non è un solo un neologismo coniato dal Centro studi di geopolitica della Duma negli anni Novanta, ma una necessità per ripensare il futuro del Paese dopo la dissoluzione dell’URSS. Forze filorusse non mancano né in Germania né in Francia. Possiamo dire lo stesso per la Russia?