Quando si conduce un negoziato la prima regola, quella necessaria per procedere, è di assicurarsi tutto il supporto possibile. Tanto più nelle relazioni internazionali.

Solo gli attori più coesi possono sperare in un successo, gli altri – prima ancora di subire i colpi dell’avversario – rischiano di soccombere a causa delle crepe interne.

Theresa May, negli ultimi venti mesi, non sembra abbia voluto attenersi a questa regola.

Nel suo discorso di venerdì scorso, teso e legnoso come pochi altri, la premier britannica ha dovuto ammettere che il Regno Unito non solo non ha mai avuto un vero piano per l’uscita dall’Unione Europea ma pure che, quando la Brexit si concretizzerà, ci saranno ricadute dirette sui cittadini britannici.

Parole molto dure che, seppur nascoste dietro un’apparente sicurezza, confermano l’ipotesi avanzata già qualche mese fa: Theresa May non ha mai lavorato per “negoziare” un accordo con Michel Barnier e non ha mai nemmeno avuto la forza per fare alcuna proposta, il suo unico obiettivo – mai dichiarato ma ora manifesto – è sempre stato di trovare un modo per far digerire al Partito conservatore e agli elettori inglesi un calice amaro se non addirittura amarissimo.

Senza più velleità competitive, il primo ministro ha dovuto ammettere che rimanere nel mercato unico uscendo dall’unione doganale è tecnicamente impossibile e che, in ogni caso, il Regno Unito dovrà adeguarsi alle norme in materia di aiuti di Stato e regolamentazione finanziaria decise da Bruxelles. Certo, potrà farlo usando le proprie istituzioni nazionali, ma con margini di manovra ridotti al lumicino. Il governo britannico, inoltre, rimarrà un partner pagante di alcune agenzie europee (farmaci, chimica ed energia atomica, in particolare) ma perdendo ogni possibilità di influenzarne la gestione o le politiche. Theresa May ha addirittura accettato che la vituperatissima (dagli euroscettici) Corte di giustizia europea mantenga una qualche forma di giurisdizione sul Regno Unito e che, in ogni caso, non sarà possibile liberarsi di tutte le sentenze antecedenti alla Brexit.

Dove il governo di Sua Maestà britannica rimane ancora molto vago è sul modello da seguire per costruire i nuovi rapporti tra Regno Unito e Unione Europea: abbandonata l’idea della (dis)unione doganale (gli inglesi avevano proposto un meccanismo di compensazioni complicatissimo, ritenuto inattuabile dagli esperti del settore) rimangono in campo le solite alternative, il modello norvegese (accesso ai mercati UE con in cambio pagamenti fissi e attuazione automatica delle norme) e quello canadese (un trattato commerciale classico con alcune tipologie di beni sensibili escluse). Il problema è che da Downing Street non è ancora arrivata nessuna preferenza ufficiale.

Così, mentre il fronte “europeo” rimane in uno stallo pericolosamente precario, il primo ministro pare non avere troppe carte da giocare nemmeno in patria. L’ala più oltranzista del Partito conservatore sta complottando per rimuoverla e sostituirla con un leader più carismatico, mentre, all’opposizione, Jeremy Corbyn ha schierato il Labour a favore del mantenimento dell’unione doganale con la UE, attirandosi molte simpatie anche in settori di norma abbastanza ostili alle sinistre, come le imprese e le associazioni di categoria.

Al momento le fibrillazioni dei Tories rimangono sotto il livello di guardia solo perché una nuova tornata elettorale li vedrebbe quasi sicuramente all’opposizione, mentre il protagonismo dei laburisti appare molto più insidioso.

Corbyn, a lungo attaccato per le sue posizioni gauchiste sta, con precisione millimetrica, spostando il suo partito verso l’anima moderata dell’elettorato britannico, provando a disegnare un nuovo perimetro politico in cui il Labour è la forza della ragionevolezza e del compromesso, mentre i Conservatori finirebbero nell’angolo di chi non è riuscito a concludere un accordo vantaggioso con l’Unione Europea.

Queste tre armate concentriche (i negoziatori UE di Barnier, il Labour di Corbyn e i ribelli conservatori di Boris Johnson) si stanno stringendo sempre di più attorno al numero 10 di Downing Street. Ora si tratta solo di capire chi sferrerà il colpo che farà crollare l’impalcatura retorica messa in piedi dall’attuale governo britannico. Giunti a questo punto, al netto di un improbabile secondo referendum, rimane solo da capire se il Regno Unito sceglierà la via di un negoziato condotto su basi razionali da un eventuale governo laburista o se preferirà, di nuovo, affidarsi alle sirene degli euroscettici. L’Europa, attonita, non può far altro che attendere.

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