«The country is coming together, but Westminster is not». Con queste parole il primo ministro britannico Theresa May ha spiegato la sua decisione, assunta – ha voluto precisare – con riluttanza.
Sono trascorsi quasi dieci mesi dal voto referendario con cui gli elettori del Regno Unito si sono espressi a favore dell’uscita di Londra dall’UE, ma la vera partita politica della Brexit comincia adesso, con l’avvio formale della procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TUE) e l’imminente inizio del negoziato con Bruxelles. Un passaggio complesso e delicato, determinante per plasmare il futuro geopolitico del Regno, ma ‘mentre il Paese si sta unendo’ – ha sottolineato May – ‘Westminster si divide’: dunque, non c’è altra soluzione che chiamare i cittadini britannici alle urne, perché facciano la loro scelta.
L’annuncio di martedì della leader conservatrice è giunto per molti versi inatteso, soprattutto perché la stessa May si era espressa più volte contro l’ipotesi di elezioni anticipate e aveva ribadito in diverse occasioni di voler andare al voto a naturale scadenza, nel 2020. In politica però, le posizioni possono cambiare facilmente, soprattutto se – in prospettiva – ci sono buone possibilità di successo.
La decisione di Theresa May si inserisce nel quadro delle trattative per la Brexit e risponde a una logica ben precisa: al momento, i Tories possono contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni, forti del risultato elettorale del voto del 2015 che li vide prevalere sulle altre forze politiche e aggiudicarsi 330 scranni su 650. Tuttavia, nei primi dieci mesi di confronto e dibattito sull’uscita di Londra dall’UE, il primo ministro conservatore ha potuto constatare come il percorso sarà denso di difficoltà, con le forze politiche di opposizione – dai laburisti, ai liberaldemocratici fino allo Scottish National Party – pronte a sfruttare ogni occasione per indebolire il governo e la stessa Camera dei Lord che ha fatto sentire la sua voce. Il margine parlamentare non è peraltro particolarmente rassicurante, essendo ridotto a 17 seggi, e all’interno dello stesso fronte conservatore i vari distinguo potrebbero rappresentare un ulteriore ostacolo per il primo ministro.
Chiedendo agli elettori di pronunciarsi, May cerca quindi da una parte quella piena investitura popolare che è mancata al momento del suo ingresso a Downing Street – dove è arrivata per sostituire il dimissionario David Cameron dopo il referendum sulla Brexit – e dall’altra di ottenere un mandato chiaro per poter trattare con Bruxelles da una posizione rafforzata.
I numeri al momento sembrerebbero dalla sua parte, e se è vero che negli ultimi tempi i sondaggi sono stati non di rado smentiti, pare difficile ipotizzare oggi uno scenario che non veda i conservatori consolidare la loro maggioranza parlamentare. Secondo un’indagine svolta da ICM/Guardian subito dopo l’annuncio di May, i Tories avrebbero infatti un consistente vantaggio di 21 punti percentuali rispetto ai loro principali rivali, i laburisti di Jeremy Corbyn, incontrando il favore del 46% degli elettori contro il 25% del Labour e l’11% dei liberaldemocratici; valori questi sostanzialmente in linea con gli ultimi sondaggi di YouGov del 12-13 aprile, che vedevano i conservatori come opzione preferita dal 44% dei rispondenti a fronte del 23% dei laburisti e del 12% dei Lib-Dem. Di più, il sondaggio ICM/Guardian rivela che il 55% degli intervistati supporta la decisione del primo ministro May di chiedere nuove elezioni, a fronte del 15% che si oppone e del 30% che dichiara di non sapere cosa rispondere.
La leader conservatrice non si è nascosta: ha bisogno di un mandato forte per poter condurre al meglio le trattative con l’Unione Europea e ottenere il miglior accordo possibile per il Regno Unito. E gli elettori britannici, complice anche un Labour in difficoltà, sarebbero propensi a concederglielo. Bruxelles, da parte sua, ha confermato di voler mantenere inalterati i tempi del negoziato, e secondo una chiave di lettura rilanciata da Politico, nuove elezioni potrebbero essere utili alla stessa UE: se infatti Theresa May dovesse vedere consolidata la sua posizione a seguito del voto, potrebbe far leva sulla già citata legittimazione popolare per ridimensionare il peso delle frange più intransigenti del fronte del Leave, e negoziare così una Brexit più ordinata. Peraltro, con il voto anticipato all’8 giugno, la nuova scadenza elettorale sarebbe poi spostata al 2022: in questo modo, Bruxelles e Londra – senza l’incombenza dell’appuntamento elettorale britannico del 2020 – potrebbero raggiungere l’intesa sul recesso del Regno Unito dall’UE e poi negoziare con maggiore tranquillità un accordo transitorio che regoli i reciproci rapporti tra le due entità, in vista di una loro successiva puntuale definizione.
La proposta del primo ministro di andare a elezioni anticipate ha ricevuto 522 voti favorevoli a fronte di 13 contrari: dunque, la maggioranza dei 2/3 necessaria affinché la mozione fosse accolta e gli elettori fossero chiamati alle urne è stata ottenuta.
Per Theresa May si apre adesso una fase decisiva, in un contesto complesso. Restano infatti intatte, accanto alla Brexit e intrecciandosi a esse, alcune questioni spinose per il Regno: da un parte, l’Irlanda del Nord è ancora senza un governo, e le elezioni generali potrebbero aggiungere ulteriore incertezza a una situazione già di per sé intricata; dall’altra parte, a Nord del vallo di Adriano, le istanze dell’indipendentismo scozzese sono tornate a farsi sentire. Qui, lo Scottish National Party proverà a giocare tutte le sue carte, ma ripetere l’ottimo risultato delle elezioni del 2015 – quando si aggiudicò 56 dei 59 seggi scozzesi di Westminster – non sarà facile.
La partita è iniziata. La parola, l’8 giugno, agli elettori britannici.

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