Le apparenti indecisioni di Donald Trump sulla risposta all’abbattimento da parte iraniana di un drone americano hanno suscitato una gran quantità di interpretazioni. Ma nessuno ha voluto ricordare il “Fattore Mayaguez”, un episodio accaduto meno di due settimane dopo la caduta di Saigon nel 1975 e da allora considerato, beninteso in via ipotetica, una delle contromisure cui possono ricorrere i presidenti degli Stati Uniti quando le cose si mettono male, oppure all’indomani di una clamorosa sconfitta come fu quella del Vietnam.

Per capire occorre tornare a quei giorni, dal 12 al 15 maggio del 1975. A Washington regnava il disordine più completo, tutta l’America si sentiva umiliata dalle immagini registrate sul tetto dell’ambasciata USA a Saigon, e anche chi si era schierato contro la guerra del Vietnam capiva che la superpotenza battuta non sarebbe mai più stata la stessa. Molto lontana dalla madrepatria e diretta in Thailandia con a bordo un carico di containers (alcuni dei quali caricati proprio in Vietnam poco prima del crollo), la SS Mayaguez si sentiva sicura navigando al largo delle coste della Cambogia. Sbagliava, perché i Khmer rossi avevano preso il potere da meno di un mese e avevano portato il limite delle loro acque territoriali a 12 miglia nautiche: un limite che la Mayaguez stava inconsapevolmente violando.

La cattura della nave da parte di piccole imbarcazioni khmer fu un gioco da ragazzi. Il mercantile USA fu costretto a gettare l’ancora davanti all’isola di Poulo Wai, e l’equipaggio fatto sbarcare senza violenze particolari. Alla Casa Bianca la notizia fece l’effetto di una bomba. Dopotutto c’era ancora una guerra da vincere. Piccola, ma sempre guerra. Il presidente Gerald Ford ordinò ai militari di prepararsi ad intervenire, e attraverso il segretario di Stato Henry Kissinger chiese l’aiuto dei cinesi per liberare la nave e l’equipaggio, trasportato nel frattempo nell’isola di Koh Tang. Il tentativo di coinvolgere Pechino fallì, e fu data allora via libera all’opzione militare.

Entrarono in azione decine di aerei e di elicotteri, furono schierati seicento Marines, ma il risultato delle operazioni non fu brillante. I Marines dettero l’assalto alla Mayaguez soltanto per scoprire che era deserta, cosa che le numerose ricognizioni non avevano capito. Poco dopo i Khmer rossi rilasciarono l’equipaggio che fu portato al sicuro da un peschereccio thailandese, ma la notizia per ragioni ignote non giunse per molte ore agli Stati maggiori di Washington e ai comandanti sul campo. Credendo di dover ancora liberare ufficiali e marinai, i Marines furono fatti sbarcare da elicotteri (tre su otto andarono distrutti) nell’isola di Koh Tang dove c’era un forte presidio Khmer che temeva un attacco vietnamita, non americano. Soltanto dopo aspri combattimenti giunse la notizia della liberazione dell’equipaggio e cominciò la ritirata, con un bilancio finale di quaranta morti, cinquanta feriti e alcuni Marines lasciati nell’isola e successivamente fucilati. Un disastro da ogni punto di vista. Ma l’opinione pubblica americana esultò come se il verdetto della guerra del Vietnam fosse stato rovesciato, e nei sondaggi Gerald Ford guadagnò, in un colpo solo, undici punti.

Cosa c’entrano Donald Trump e il braccio di ferro con l’Iran? Abbiamo già avvertito che si tratta di una ipotesi, ma qualche somiglianza la si può trovare. Da mesi gli osservatori della scena statunitense segnalano che ogni mossa di Trump, soprattutto in politica estera, è diretta alla conquista di consenso in vista delle elezioni presidenziali del 2020. Ma gli obiettivi scelti dal presidente sin qui non sono stati raggiunti: il negoziato con i Talebani per ritirarsi dall’Afghanistan non avanza, gli alleati (Italia compresa) non vogliono sostituire i duemila americani in Siria, con il nucleare della Corea del Nord ci sarà un nuovo tentativo, ma ne sono già falliti due, e con l’Iran è meglio essere prudenti perché in uno scontro difficilmente potrebbero essere evitate perdite americane.

Ma lo “scenario” di una piccola guerra è stato creato, ed è pronto. Se alla vigilia del novembre 2020 i sondaggi non fossero favorevoli, chi impedirebbe a Trump di fare ricorso al “Fattore Mayaguez”, e quale ne sarebbe l’effetto in termini di consenso se non quello che scatta sempre in America, l’appoggio patriottico al Commander in Chief? L’ipotesi è suggestiva, e la doccia scozzese di Trump fa pensare. Ma non sarà facile per lui tenere a disposizione un “Fattore Mayaguez” per più di un anno. A meno di rinunciare ai consigli e alle pressioni dei due “falchi” che lui stesso si è messo vicino, Bolton e Pompeo.

Immagine: Soldati americani che salutano la bandiera degli Stati Uniti. Crediti: Di Bumble Dee / Shutterstock.com

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