A conferma dell'acrimonia che ha dominato la campagna elettorale, subito dopo la cerimonia d'insediamento del nuovo presidente repubblicano c'è stata la polemica sul numero dei partecipanti alle due inaugurazioni del 2009 e del 2017. Ed è certo che il numero delle persone che nel 2009 celebrarono il ritorno dei democratici alla Casa Bianca dopo due mandati repubblicani superava quello dei sostenitori di Donald Trump dopo 8 anni di presidenza di Barack Obama e l’entusiasmo della folla democratica, animata dall’ottimistico slogan "Yes, we can!", era superiore a quello dei sostenitori di Trump. Ma, retrospettivamente, è possibile affermare che le due amministrazioni guidate dal primo presidente afroamericano della Storia avevano già del piombo nelle ali al momento della prima inaugurazione. Una realtà che non poteva allora essere conosciuta, ma che risulta evidente a un’analisi storiografica anche superficiale. Soprattutto per questo motivo l’inattesa vittoria di Trump, prima nel campo repubblicano e poi nel confronto con Hillary Clinton, pur configurandosi come una normale alternanza di governo (si pensi ai cicli della politica americana illustrati qualche decennio fa da Arthur Schlesinger jr) ha assunto fin dall’inizio un significato di svolta profonda, che potrebbe anche rivelarsi epocale.

La fase finale della campagna elettorale del 2008 e le stesse elezioni di quell’anno si svolsero in contemporanea con l’esplosione della crisi finanziaria, peraltro manifesta fino dal 2007 e in realtà evidente, per chi avesse voluto vedere, fino dal 2006, al momento dell’inversione di tendenza nei prezzi sui mercati immobiliari. Fu proprio l’esplosione della crisi a favorire la vittoria dei democratici: il disinteresse dell’amministrazione Bush nei confronti della bolla immobiliare fu sufficiente a indurre l’elettorato ad attribuire la responsabilità ai repubblicani. Il resto lo fece il candidato repubblicano McCain gestendo maldestramente le fasi convulse del settembre-ottobre 2008, quando cercò di cavalcare il diffuso risentimento dell’opinione pubblica contro il sistema bancario e finanziario. McCain apparve meno collaborativo di Obama nei confronti dei tentativi del segretario al Tesoro Paulson per contenere le conseguenze di quell’esplosione nel modo più conservativo possibile. Sempre prima delle elezioni, lo stesso Paulson si fece promotore della decisione più importante nell’orientare tutta la successiva azione dei politici e dei regolatori per far fronte alle conseguenze della crisi. Il salvataggio del gruppo assicurativo American International Group, condotto sull’orlo del fallimento dalle irresponsabili attività speculative della sua unità finanziaria, rese manifesta l’impotenza del governo degli Stati Uniti nei confronti della finanza, e consolidò la convinzione che le banche e gli istituti finanziari di grandi dimensioni non potevano fallire, nonostante il tentativo dello stesso Paulson di ripristinare un minimo di senso responsabilità lasciando fallire la banca d’investimento Lehman Brothers.

La crisi finanziaria all’origine dei populismi
Ma il piombo nelle ali delle amministrazioni Obama non veniva dal senso di responsabilità dimostrato nella fase acuta: aveva origini più lontane da ricercarsi nella sotterranea continuità con le due amministrazioni Clinton dell’ultimo decennio del Novecento, quelle stesse che proprio al cambio di secolo avevano pilotato nel Congresso due provvedimenti legislativi favorevoli a processi di deregolamentazione decisivi nello stimolare e prolungare la bolla immobiliare dei primi anni del millennio. Al momento dell’insediamento di Obama le due personalità che avrebbero guidato la politica economica e finanziaria di Obama, Lawrence Summers e Timothy Geithner, erano già state designate ed entrambe avevano collegamenti, diretti nel primo caso e indiretti nel secondo, con la politica economica di Bill Clinton. Nello stesso senso andava la provenienza di Obama da Chicago, tradizionale roccaforte democratica e, al contempo, sede delle attività finanziarie più innovative e potenti in grado di rivaleggiare con Wall Street: non per nulla uno dei maggiori sponsor del giovane senatore democratico dell’Illinois era stato il rappresentante Rahm Emanuel (ora sindaco di Chicago), che divenne capo di gabinetto della Casa Bianca e punto di riferimento per il nuovo segretario al Tesoro Geithner.
Non solo: durante la transizione, la declinante amministrazione Bush prese altre rilevanti decisioni tutte orientate a favore della soluzione dei problemi attraverso il salvataggio pubblico degli istituti bancari e finanziari, rinviando a un momento successivo le riforme necessarie, quando gli interlocutori della finanza sarebbero stati molto meno deboli. All’atto dell’insediamento, era già stata fatta anche la scelta di affrontare la crisi sostenendo le banche e gli istituti finanziari anziché intervenendo a favore dei mutuatari rimasti intrappolati nella brusca inversione dei prezzi immobiliari. Si trattava di una scelta fondamentale: il sostegno ai debitori avrebbe probabilmente ridotto le conseguenze degli eccessi della finanza sull’economia reale, ma introduceva una profonda divisione nella middle class americana tra coloro che avevano approfittato dell’abbondanza di credito e quelli che ne erano rimasti esclusi. Questa divisione comportò una rapida e profonda radicalizzazione dello scontro politico, introducendovi elementi d’invidia sociale che sarebbero divenuti, col perdurare della crisi, il fondamento di movimenti populisti sparsi in tutto il mondo. Il primo esempio di questi movimenti fu quello sviluppatosi nel partito repubblicano americano col nome di “Tea Party”, un’etichetta evocativa dell’episodio bostoniano che aveva dato inizio alla Rivoluzione americana in nome della lotta contro la tassazione, ora generalizzata in rifiuto di ogni intervento pubblico nell’economia perché sempre squilibrato a favore dei più abbienti. Le conseguenze della crisi, rapidamente e costosamente superata in tempi abbastanza rapidi sul piano finanziario e bancario, resero permanente la radicalizzazione dello scontro politico al punto d’ingenerare dubbi sulla tenuta delle elastiche ma antiquate e inefficienti strutture istituzionali degli Stati Uniti.

La tardiva e debole riforma finanziaria di Obama
La continuità tra l’amministrazione di Bush e quella di Obama nelle politiche di contrasto della crisi fu assai spinta, grazie anche all’azione della Federal Reserve di Ben Bernanke, che proseguì (e ancora oggi sostanzialmente prosegue con Janet Yellen) nella politica monetaria accomodante, nel sostegno continuo alla liquidità del sistema bancario e finanziario. Queste politiche – sin dalla tarda primavera del 2009 – impartirono rinnovato vigore al processo di ipertrofizzazione della finanza che era stato la principale causa della crisi. Il Presidente preferì delegare al Dipartimento del Tesoro e alla banca centrale la politica di contrasto alle conseguenze della crisi, concentrandosi appena possibile su quello che considerava il suo obiettivo principale di politica sociale: la riforma sanitaria. In questa scelta traspariva la sottovalutazione della questione rappresentata dall’ascesa della finanza che avrebbe dovuto esser fermata attraverso una riforma rapida e incisiva: come ebbe a dire Rahm Emanuel già prima dell’elezione di Obama, “Nessuno vuole che una crisi finisca nella spazzatura”. Dove invece finì, perché la riforma obamiana del sistema finanziario, il Dodd-Frank Act approvato nel 2010, fu una legge macchinosa più del dovuto, con un’entrata in vigore molto diluita nel tempo al punto che la sua completa attuazione era prevista per il 2019. Questo deludente risultato fu dovuto anche all’ostruzionismo repubblicano, dal momento che la radicalizzazione dello scontro politico si era intensificata e diffusa. Con le elezioni di mid term del novembre 2010 si avviò un processo che doveva rapidamente distruggere ogni possibilità di un confronto politico reale tra i due grandi partiti, con i repubblicani impegnati allo stremo a contenere la presidenza di Obama nei limiti di un unico mandato. Nonostante gli sforzi profusi sia sul piano politico sia su quello della comunicazione, la seconda amministrazione Obama riuscì a far passare il messaggio del superamento della crisi attraverso una crescita limitata e sostanzialmente asfittica soltanto nel corso dell’ultimo anno del mandato, soprattutto sul piano dell’occupazione.
Eppure, anche lasciando da parte la riforma sanitaria, la discontinuità delle amministrazioni Obama rispetto a quelle repubblicane che l’avevano preceduta era evidente nella politica internazionale, in quella energetica e anche nella difesa dei limitati livelli di welfare esistenti negli Stati Uniti: sul punto fondamentale del contenimento della tendenza alla diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, tuttavia, la bella e progressiva retorica del Presidente intellettuale non riusciva a far presa, proprio perché la tendenza continuava indisturbata e anche perché si diffondevano nuove forme semplificatorie di comunicazione. Le stesse, peraltro, che nelle loro fasi iniziali, avevano accompagnato il successo del giovane senatore dell’Illinois.

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