Concentrata sul braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia in Siria e sulle tensioni di confine tra israeliani e palestinesi, l’attenzione del mondo per il Medio Oriente si sta soffermando quasi esclusivamente su quanto accade sulla costa mediterranea. Ma è forse sull’altro versante di quell’area, nel Golfo Persico, che sta per avvenire qualcosa che potrebbe realmente sconvolgere gli equilibri della regione in modo irreparabile.

Da pochi giorni negli Emirati Arabi Uniti è stata completata l’ultima cupola di quella che sarà la prima centrale ad energia nucleare della penisola arabica; un progetto, frutto di un accordo con la Corea del Sud, che vede gli Emirati come primo Paese a partecipare alla corsa al nucleare civile nell’area.

Sulla stessa frontiera si colloca anche l’Arabia Saudita, che già qualche anno fa aveva dichiarato di voler costruire sul suo territorio sedici centrali nucleari entro il 2030. Anno che non è stato scelto a caso poiché coincide con la data indicata nella Saudi Arabia’s Vision, la strategia di sviluppo e riposizionamento geopolitico del governo saudita che, tra i tanti cambiamenti previsti in molteplici ambiti, vede nel 2030 anche l’anno in cui inizierà un futuro per il Paese non più fortemente dipendente dall’estrazione ed esportazione di idrocarburi.

A differenza del vicino Iran, costretto, per lo sviluppo del suo programma nucleare civile, a fronteggiare l’ostracismo internazionale e le sanzioni, i Paesi arabi del Golfo possono contare su partner trasversali. Russia, Cina, Corea del Sud, Stati Uniti e una manciata di Stati europei si sono già detti pronti a gettarsi in quello che sarà uno dei grandi business futuri della regione.

C’è da chiedersi, tuttavia, come mai vi sia così grande interesse per l’energia nucleare da parte di Paesi ricchi di giacimenti di petrolio e gas naturale proprio nel momento in cui anche chi per decenni ha utilizzato l’energia nucleare – Germania e Giappone, ad esempio – decide di abbandonarne progressivamente l’uso a favore di risorse energetiche pulite.

Nel caso specifico dell’Arabia Saudita, oltre alle motivazioni di natura interna miranti a svincolare il Paese dall’eccessivo utilizzo da parte dei suoi cittadini di derivati del petrolio – peraltro commercializzati ad un prezzo particolarmente basso – vi è anche una motivazione di natura prettamente geopolitica.

Sebbene fosse da tempo accertato lo status di potenza atomica dell’odiato (almeno fino a poco tempo fa) Israele, Riyad non ha mai sentito il bisogno di rispondere dotandosi a sua volta di armi nucleari: l’ombrello dell’arsenale atomico dell’alleato statunitense era considerato una garanzia più che sufficiente per la propria sicurezza.

L’intenzione di Teheran di non rinunciare del tutto al programma nucleare nonostante le sanzioni induce del resto i vicini arabi a chiedersi se il regime degli ayatollah non voglia fare del deterrente nucleare lo strumento per imporsi nell’intera regione, dallo Yemen alla Siria.

L’Arabia Saudita sta quindi agendo nel tentativo di porsi come potenza di riferimento della coalizione sunnita anti-Iran. In quest’ottica il principe ereditario al trono saudita Mohammad bin Salman Al Sa’ud, considerato l’uomo forte del governo di Riyad, in cui ricopre i ruoli di capo del governo e ministro della Difesa, ha dichiarato che qualora l’Iran si dotasse della bomba atomica, l’Arabia Saudita sarebbe pronta a fare lo stesso nel più breve tempo possibile.

L’interesse dei sauditi e degli altri governi dei Paesi arabi del Golfo verso le tecnologie per l’utilizzo dell’energia atomica non è quindi solo rivolto allo sviluppo economico, ma ha come obiettivo quello di non restare indietro rispetto a quanto fatto dal rivale iraniano. In questo contesto è quindi possibile che nei prossimi decenni si strutturi uno scacchiere mediorientale che veda sia l’Iran sia l’Arabia Saudita dotate del proprio arsenale atomico.

La contrapposizione reciproca e la prossimità geografica tra le due potenze rivali dovrebbe bastare ad assicurare che né Riyad né Teheran siano disposte ad utilizzare realmente l’atomica nei confronti dei rivali, nel pieno rispetto della teoria della MAD (Mutual Assured Destruction, Mutua distruzione assicurata), sviluppatasi durante il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella guerra fredda e fondata sulla logica considerazione che, se due Paesi nemici sono dotati di armi atomiche, anche in presenza di notevoli attriti non saranno mai disposti a farsi guerra aperta in quanto certi che se uno dei due lanciasse un missile atomico l’altro dovrebbe per forza di cose rispondere. Il risultato sarebbe una devastazione tanto grande da non giustificare qualsiasi possibile vantaggio derivante da un’ipotetica guerra.

Eppure ci sono alcuni possibili elementi per cui questa dottrina potrebbe venir messa in discussione se applicata nello scenario mediorientale.

Innanzitutto, il MAD è stato concettualizzato e applicato in un contesto fortemente bipolare, con due schieramenti di potenza netti e contrapposti l’uno all’altro. Per poter funzionare, la psicologia dietro al MAD richiede che ciascuno degli attori abbia chiaro in mente da chi partirebbe l’eventuale colpo fatale e per quale ragione. In questo modo si viene a creare una dinamica particolare nota come “equilibrio del terrore” in cui corsa agli armamenti atomici e consolidamento della pace vanno di pari passo.

Arabia Saudita e Iran sono certamente contrapposti tra loro in modo netto e costituiscono il punto di riferimento di due rispettive coalizioni mediorientali, ma ciò non significa affatto che il Medio Oriente potrà vivere una stagione chiaramente bipolare. Per cominciare, nella regione è già presente una potenza nucleare, Israele, e nessuno dei due rivali può realisticamente garantirsi un appoggio stabile da parte del suo governo, troppo inviso alle rispettive opinioni pubbliche e comunque intenzionato a perseguire gli obiettivi della propria agenda nella regione.

Esiste inoltre un quarto attore, la Turchia, che attualmente imposta le sue alleanze mediorientali in base alla convenienza del momento. Ankara a sua volta ha aspirazioni di egemonia nella regione ed è pressoché impossibile che decida di accodarsi alla guida saudita o iraniana. La Turchia ospita già un arsenale nucleare all’interno del suo territorio, sebbene americano. D’altra parte è pressoché scontato immaginare che se Iran e Arabia Saudita proveranno a dotarsi di armi nucleari, la Turchia farà lo stesso. Nel frattempo anche Ankara, come l’Arabia Saudita, ha dato inizio ai lavori di costruzione della sua prima centrale nucleare.

Uno scenario che vede tre-quattro protagonisti dell’area tutti quanti dotati sia della volontà politica di imporsi sui rivali sia delle armi atomiche per farlo rende molto più difficile il consolidarsi di un equilibrio del terrore. Il Medio Oriente potrebbe rivelare un’anticipazione di teatri regionali caratterizzati da una perenne instabilità rafforzata dalla proliferazione nucleare, considerata come fondamentale da parte di potenze locali insicure verso i propri vicini e nei confronti della propria opinione pubblica.

A gettare ombre ancora più fosche rispetto alle visioni radiose per il 2030 di un nucleare al servizio di Paesi ricchi, avanzati e attenti all’ambiente, è la constatazione che la Mutua distruzione assicurata si basa sul principio che la potenza nucleare, anche se nemica, sia un’interlocutrice razionale con cui è possibile comunicare e intendersi. Purtroppo le rivalità reciproche tra Arabia Saudita, Iran, Israele e Turchia, che corrono tanto su dinamiche di potere o ideologia quanto su credenze religiose e forme di organizzazione sociale, rendono particolarmente difficile il confronto sul piano del dialogo.

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