L'8 novembre scorso il tifone Haiyan si è abbattuto sulle Filippine centrali provocando inondazioni, frane e danni in tutta l'area. I numeri di Yolanda – così come viene chiamato il tifone Haiyan dalla popolazione locale – sono impietosi: quasi 10 milioni gli abitanti coinvolti, 23.200 case distrutte, 615.000 gli sfollati secondo il National Disaster Risk Reduction and Management Council che in queste ore lavora in sinergia con il governo locale. L'ultimo bollettino diffuso dall'Associated Press parla di 3.621 vittime accertate, citando come fonte un alto funzionario della Difesa locale. Una volta passata la tempesta, le immagini del tifone Haiyan hanno fatto in fretta il giro del mondo, e si è passati alla fase degli interventi umanitari.

La risposta degli Stati Uniti non si è fatta attendere, e ad appena 24 ore dal passaggio di Yolanda sulle province di East Samar e Leyte la USAID – l'agenzia federale che si occupa di assistenza umanitaria nel mondo – ha stanziato 20 milioni di dollari per il supporto immediato alla popolazione. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è intervenuto sulla questione il 14 novembre scorso rafforzando ancora una volta l'impegno nell'area alla luce di un'amicizia tra i due paesi che – come ha ricordato Obama - “ha radici profonde, e quando i nostri amici sono in difficoltà, l'America li aiuta”.

Al di là della retorica, c'è un punto interessante toccato da Obama nel suo breve intervento, ed è quando sostiene che “il nostro personale militare e dell'USAID darà assistenza facendo meglio di ogni altro nel mondo”. Obama ha parlato apertamente di uso delle forze militari per ragioni umanitarie. Il capo del Pentagono Chuck Hagel – che già ad agosto è stato in visita nelle Filippine per discutere della presenza militare americana nella zona – ha infatti ordinato alla portaerei George Washington e al contingente annesso di 2 navi incrociatori di fare rotta per il golfo di Leyte.

A bordo della portaerei sono in 5.000 tra marinai e marines con più di 80 aerei a disposizione. Un dispiegamento di personale e mezzi militari che si andrà ad aggiungere ai 90 marines già presenti nell'area, e ai due aerei cargo C-130, oltre che al pezzo forte della spedizione: l'MV-22 Osprey. Un velivolo che ha la peculiarità di atterrare e decollare come un elicottero e volare come un aereo e che quindi si presta perfettamente alla causa per raggiungere le località più colpite dal tifone. Il 13 novembre scorso, il Dipartimento della Difesa ha inoltre fatto sapere che impiegherà al più presto altri 4 MV-22 Osprey, che andranno ad aggiungersi a quelli già impiegati nelle operazioni nelle Filippine, per un totale di 8 velivoli di questo tipo in azione nel teatro del disastro. Una mole di aiuti definita da più parti “senza precedenti” nella storia delle emergenze umanitarie.

Conor Friedersdorf sulle pagine del The Atlantic pone un interrogativo interessante: “È questa la migliore umanità da mettere in pratica per aiutare le Filippine?”. La questione secondo Friedersdorf è quella di rivedere – senza proclami utopicamente pacifisti – le discutibili priorità globali che vedono nel rafforzamento dell'apparato militare uno dei più grandi paradossi delle grandi potenze: “Quando leggo che una carrellata di mezzi militari è pronta per essere inviata a salvare i sopravvissuti e consegnare rifornimenti – scrive Friedersdorf – sono grato agli ufficiali, ma anche colpito dal fatto che gli strumenti che stiamo usando sono stati progettati per combattere le guerre e vengono temporaneamente convertiti per un altro uso”.

Piuttosto, si chiede Friedersdorf, se avessimo pensato ad una flotta finanziata e progettata altrettanto meticolosamente – rispetto a quanto già accade in ambito militare – ma ottimizzata per rispondere ai disastri naturali, “quante vittime avremmo raggiunto?”. I disastri naturali sono particolarmente devastanti nei paesi più poveri con infrastrutture più fragili rispetto a quelle dei grandi paesi industrializzati, è vero. Altrettanto vero è però che il rischio è globale e non circoscritto in zone remote, se pensiamo che anche il Nord America è a rischio tsunami. Allora piuttosto che “scavare nelle nostre tasche solo dopo, quando le descrizioni delle fosse comuni e la fame ci raggiungono” - scrive Friedersdorf – sarebbe meglio fare qualcosa di politicamente meno ipocrita: “Va bene agire poi. Sarebbe meglio agire prima”.