Le elezioni tenutesi a Taiwan lo scorso 11 gennaio rappresentano non solo il primo appuntamento elettorale del 2020, ma anche il termometro dell’equilibrio regionale e delle future relazioni tra Repubblica popolare cinese (RPC), Taiwan e Stati Uniti. La schiacciante conferma di Tsai Ing-wen e del suo Democratic Progressive Party (DPP) ai danni del quotato candidato del Kuomintang (KMT), il sindaco di Kaohsiung Han Kuo-yu, ha ulteriormente inasprito i rapporti tra le due sponde dello stretto e posto diversi interrogativi sulla possibile reazione cinese. Le ben 8 milioni di preferenze, record assoluto nella storia elettorale taiwanese, per Tsai sono un chiaro segnale nei confronti di Pechino, oltre che un totale rifiuto per il programma politico del KMT. Nonostante i 5,5 milioni di preferenze, Han Kuo-yu è stato probabilmente troppo spregiudicato nell’incentrare la sua campagna elettorale sulla futura integrazione con il continente, recandosi a Hong Kong, Macao e Shenzhen per firmare degli accordi commerciali con alcuni quadri del Partito comunista cinese. Inoltre, il grande successo alle elezioni locali del 2018, che portarono proprio Han a diventare sindaco in una roccaforte del DPP, ha illuso i vertici del KMT. Senza dimenticare che i disordini di Hong Kong hanno avuto un forte impatto sulla società taiwanese, e Taipei non ha nessuna intenzione di affrontare un simile destino.

Da questo punto di vista il rapporto tra Xi Jinping e Tsai è sempre stato complicato, sin dall’elezione di quest’ultima nel 2016 con un’agenda fortemente autonomista e semi-indipendentista. Tsai ha sempre rifiutato di accettare il cosiddetto Consenso del 1992, sostanzialmente il principio di un Paese e due sistemi e di un’unica Cina, per ragionare invece su un consenso che ponesse Taiwan e RPC sullo stesso piano. La leader del DPP ha inoltre criticato la repressione delle manifestazioni a Hong Kong, e lo scorso anno ha apertamente sfidato Xi Jinping. Nel tradizionale discorso di inizio anno il leader cinese si è rivolto ai compatrioti taiwanesi per unire gli sforzi in funzione del comune obiettivo della riunificazione. La risposta di Tsai, arrivata il giorno dopo, non ha fatto che confermare il totale rifiuto della proposta cinese e la necessità di aprire un tavolo di trattative dove Taiwan non venga considerata come il gioiello mancante della corona, ma come un’entità autonoma desiderosa di essere padrona del proprio destino nell’arena internazionale.

Ciò non significa che Taiwan punti apertamente al confronto con la Cina, non ne avrebbe motivo e possibilità, mira bensì a ridiscutere i termini del rapporto bilaterale, e le prime parole di Tsai dopo la vittoria non fanno che andare in tale direzione. Nonostante i vertici cinesi non sembrino particolarmente propensi a venire incontro alle sue richieste, la neo-rieletta presidente ha prontamente ribadito come Pechino debba affrontare la realtà e iniziare a prospettare una Taiwan indipendente. Ha però anche auspicato una ripresa dei negoziati fondata sulla rinuncia alla minaccia, al riconoscimento della reciproca esistenza e al diritto all’autodeterminazione per i cittadini taiwanesi.

Il vigore mostrato nei confronti di Pechino, oltre all’eclatante vittoria, potrebbero indurre a pensare che Tsai e il DPP abbiano avuto un costante gradimento e riscontro popolare. In realtà il 2019 si era aperto con degli indici di gradimento talmente bassi che addirittura fecero ipotizzare un forfait da parte della presidente. La sua rimonta è stata certamente incoraggiata da alcuni fattori esterni come le proteste di Hong Kong, il rilancio dell’obiettivo della riunificazione da parte di Xi e il silenzioso ma costante sostegno statunitense. Più che altro in maniera indiretta e informale, l’amministrazione Trump è stata uno dei principali alleati per la rielezione di Tsai. La guerra dei dazi lanciata da Washington ha infatti convinto alcune imprese taiwanesi ad abbandonare il continente per tornare sull’isola, aiutando così la disastrata economia del Paese. Come accennato in precedenza, anche i disordini di Hong Kong hanno avuto un deciso impatto sulla campagna elettorale: Tsai ha incanalato il malcontento contro la posizione cinese e l’ha inquadrato come esempio paradigmatico del fallimento del principio di un Paese e due sistemi. Questo approccio ha fatto recuperare parecchi consensi al DPP tra i giovani, sempre più disillusi e preoccupati da un ipotetico avvicinamento a Pechino.

La vittoria di Tsai deve quindi essere interpretata come un chiaro messaggio politico verso la Cina: i soldi e il benessere non sono più una valida moneta di scambio per il confronto democratico e la libertà. Stando così la situazione, il rapporto tra i due Paesi non potrà che concentrarsi su annose questioni: Pechino continuerà a spingere verso la riunificazione e cercherà di affossare il governo taiwanese sia economicamente che diplomaticamente, non mancando di usare la minaccia in caso di rapporti troppo stretti con gli Stati Uniti o per un’ipotetica dichiarazione d’indipendenza. Il DPP invece continuerà a portare avanti la sua agenda politica, focalizzata sul raggiungimento dell’indipendenza e la promozione di un sentimento identitario e delle radici culturali autoctone. L’esplosione dell’emergenza Coronavirus in Cina e l’approssimarsi delle elezioni negli Stati Uniti potrebbero dare un maggiore margine di manovra a Tsai, che dovrà comunque essere abile a destreggiarsi tra le ambizioni dei due giganti.

Immagine: Tsai Ing-wen dopo la vittoria per il secondo mandato presidenziale, Taipei, Taiwan (11 gennaio 2020). Crediti: O.O / Shutterstock.com

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