Nei primi anni 70, un gruppo di psichiatri statunitensi contrari alla guerra, guidati da Robert Jay Lifton, rinomato per il suo lavoro sull'impatto traumatico di Hiroshima, si preoccuparono dell'effetto corrosivo che la guerra del Vietnam poteva avere sulle menti degli uomini che vi avevano combattuto. Lifton disse in un'udienza congressuale che il veterano di guerra "ritorna come un intruso contaminato da un male invisibile che lo spinge a cercare continue possibilità per ritrovare un modello di vita violento a cui è abituato."

Il problema da questa parte dell'oceano non si è mai posto - l'ultima guerra con un impatto collettivo su larga scala è stata la seconda guerra mondiale. I conflitti successivi a cui i paesi europei hanno preso parte sono sempre stati brevi e non hanno mai coinvolto le nostre forze armate abbastanza da farci percepire l'impatto che la guerra poteva avere su noi stessi e sui soldati che l'avevano combattuta al posto nostro. Ad Hollywood ci si è comunque preoccupati di ricordare al mondo intero che cosa accadeva al ritorno dei veterani di guerra - disegnando in questo modo un'idea che avrebbe segnato la percezione collettiva delle problematiche dell'uomo segnato dalla guerra.

Sally Satel e Richard J. Mcnally, due tra i maggiori psichiatri statunitensi, hanno pubblicato su The Atlantic, un interessante studio sulla perdizione collettiva dei veterani di guerra e su quanto questa sia stata influenzata da Hollywood e dai media in generale.

Lo stereotipo del veterano psicologicamente mutilato che ha colto l'immaginazione del pubblico durante il conflitto del Vietnam indugia ancora oggi, in parte a causa della necessità delle case cinematografiche di raccontare storie ad alto contenuto empatico. Film come Taxi Driver o Rambo ritraggono il veterano come "una bomba a orologeria che cammina". Ma i media non sono stati da meno. Nel 1972, ricordano Satel e McNally, il New York Times pubblicò un articolo in prima pagina "Lo shock del dopoguerra assedia i veterani di ritorno dalla guerra in Vietnam" sostenendo che più della metà di tutti i veterani del Vietnam necessitavano aiuto psichiatrico professionale.

Oggi, secondo un sondaggio del 2012 condotto dalla Greenberg Quinlan Rosner Research, oltre la metà dei cittadini statunitensi ritiene che la maggior parte dei veterani del dopo 11 settembre soffrano di disturbo da stress post-traumatico. Il punto per Satel e McNally è che questa convinzione potrebbe ostacolare piuttosto che aiutare i soldati che stanno tornando a casa dall'Afghanistan e dall'Iraq.

Detto questo la cosa più interessante è come si percepisco i veterani del Vietnam. Un sondaggio condotto nel 1980 per il Dipartimento per gli affari dei veterani ha rivelato che il 90 per cento dei reduci intervistati disse che guardare indietro non gli creava problemi e si consideravano o contenti o abbastanza contenti per aver servito il loro paese. L'ottanta per cento disse che il ritorno a casa era stato circa lo stesso o meglio di quanto avessero previsto. Insomma, a detta di Satel e McNally, molti intervistati avevano respinto l'esagerazione sensazionalistica dei media perché aveva poca somiglianza con le loro esperienze.

Per lo più, i veterani hanno dichiarato di sentirsi invisibili, anonimi, e ignorati dal pubblico. L'ex Marine e futuro senatore degli Stati Uniti, James H. Webb, osservò nel 1976, come gli uomini che hanno combattuto in Vietnam "non avevano accesso ai media e ai centri di potere - così i media raccontarono la loro personale visione delle cose."

Oggi le cose stanno cambiando e secondo Satel e McNally le voci dei veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan stanno arrivando forti e chiare grazie a una serie di organizzazioni non profit, così come gli sforzi di sensibilizzazione generati per lo più dai blog dei veterani stessi.