Negli stessi giorni in cui il governo italiano criticava la scelta di Donald Trump di non firmare l’accordo di Parigi sul clima, una società di cui il governo italiano è principale azionista otteneva dal presidente americano il via libera alle trivellazioni nel mare dell’Alaska e inaugurerà per prima la ripresa delle attività nel delicato Artico, dopo lo stop imposto da Obama su tutte le operazioni che ne mettevano a rischio l’ecosistema.

Sarebbe però ingenuo additare questa contraddizione come un’anomalia. Da quando si è diffusa una sensibilità ambientale, molti hanno spesso tenuto posizioni apparentemente “verdi” a scopo elettorale e di immagine, per poi lasciarle nel dimenticatoio o contraddirle con l’azione di governo.

Un caso recente è quello del canadese Justin Trudeau, che nonostante le foto e le dichiarazioni che ne hanno fatto un’icona progressista sui social network, sta portando avanti politiche di pieno sostegno dello sfruttamento delle controverse sabbie bituminose, così come del completamento del gasdotto Keystone XL, avversato da ambientalisti e comunità native.

Secondo un’indagine del 2015 dell’Agenzia internazionale dell’energia, questo atteggiamento è talmente diffuso a livello globale che gli stessi leader che si impegnano pubblicamente per la difesa dell’ambiente continuano ad attribuire 550 miliardi di dollari all’anno in sussidi per l’estrazione e il consumo di idrocarburi, cioè una cifra quattro volte superiore agli incentivi riservati alle fonti rinnovabili.

Ma in questo panorama già desolante, è emerso recentemente un fenomeno nuovo, legato prevalentemente ai governi cosiddetti “populisti”. Ovvero la sostituzione delle posizioni verdi “di facciata” con una nuova retorica orgogliosamente “non ambientalista”.

Ne è un esempio proprio lo stesso Trump, che oltre a opporsi agli sforzi globali per frenare i mutamenti climatici, anche internamente è attivo in una campagna contro i parchi naturali americani, ritenuti un ostacolo allo sviluppo.

Oppure la svolta impressa in Polonia nello sfruttamento intensivo della Foresta di Białowieża, da molto tempo protetta in quanto unico residuo superstite della foresta primaria che un tempo ricopriva l’intera Europa, ora invece a rischio di sopravvivenza. Così come in Brasile, secondo Greenpeace, finita l’era Lula, in tre anni la deforestazione sarebbe tornata ad aumentare del 75%.

Un altro caso emblematico, infine, è rappresentato dalla decisione di Theresa May di inserire tra i punti importanti del proprio programma elettorale il ritorno dei cosiddetti “blood sports”, ovvero quelli che prevedono l’uccisione o il ferimento di animali, a partire dalla caccia alla volpe.

La premier britannica è teoricamente rappresentante di un partito conservatore (così come Trump), ma di fatto espressione delle forze populiste che hanno dato vita alla Brexit. In questo contesto, è significativo che il principale partito britannico abbia ritenuto che, al fine di conquistare gli elettori, fosse conveniente schierarsi contro uno dei tradizionali beniamini del pubblico: quella volpe che, nell’immaginario collettivo, siede accanto ai panda e ai cuccioli di foca tra i simboli dell’ambientalismo più popolare e consolidato.

E d’altra parte anche l’ambiente non poteva uscire indenne dagli attacchi populisti nei confronti della presunta dittatura del “politically correct”. Lo stesso fenomeno che sta portando a uno sdoganamento di linguaggi e posizioni razziste o aggressive nei confronti di minoranze di ogni tipo, finisce per riguardare anche la natura: che può così essere attaccata direttamente e senza remore, in virtù di priorità ben più immediate come la ripresa economica, ma anche della nostalgia per un passato più libero e senza regole o sensi di colpa.

Certo, appare difficile considerare in un discorso unico movimenti, partiti e governi che hanno basi radicalmente diverse tra loro. Anche considerando che alcuni di questi movimenti paradossalmente nascono spesso con una particolare attenzione per la natura (o in opposizione a certe attività umane invasive) e raccolgono consensi tra persone impegnate e con una diffusa sensibilità ambientale.

Ma secondo alcuni analisti, l’attuale populismo (con cui tendono ad allinearsi sempre più partiti tradizionali e istituzionali) condivide alcune caratteristiche che lo portano inevitabilmente a collocarsi nel tempo su posizioni del tutto opposte, fino a rappresentare un’ulteriore minaccia per la salute del nostro pianeta.

Oltre all’attacco al politically correct, gli altri tre elementi sarebbero una certa visione corta (che punta a risultati immediati, senza preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine: non certo una loro esclusiva), la delegittimazione degli esperti (visti come inaffidabili marionette in mano ai poteri forti) e l’erosione della fiducia nei confronti dei governi e delle organizzazioni internazionali (purtroppo i soli che avrebbero il potere di prendere decisioni in grado di produrre impatti reali a tutela dell’ecosistema globale).

Soffermandoci su quest’ultimo punto, in base a quanto abbiamo visto prima, non appare irragionevole: i governi non hanno fatto molto in questo campo per meritare la fiducia dei cittadini. Ma nonostante le loro azioni concrete fossero contraddittorie, anche soltanto la loro attenzione superficiale sul tema aveva contribuito nel corso degli anni allo sviluppo di una coscienza ambientale diffusa e a un aumento dell’impegno personale dei cittadini (ad esempio, nel risparmio energetico e nel riciclo dei rifiuti), generando a sua volta una richiesta da parte di questi di un sempre maggiore impegno nella stessa direzione da parte delle istituzioni.

Proprio questo aveva man mano fatto perdere appeal ai tradizionali partiti verdi, dato che sembrava che i temi dell’ambientalismo fossero ormai divenuti un patrimonio condiviso da tutti. E se le conseguenze pratiche erano ancora insufficienti, l’impegno era oggettivamente crescente, come evidente nelle decisioni prese con l’accordo di Parigi.

Il rischio è che questa nuova ondata porti a un’inversione di tendenza, proprio nel momento in cui sarebbe invece più importante intensificare ancora di più gli sforzi. Tra segni quotidiani del cambiamento climatico e allarmi per una sesta grande estinzione di massa ormai in corso, sarebbe invece davvero assurdo tornare a mettere in dubbio quel poco che già sembrava al sicuro, finendo persino per riaprire la caccia a volpi, panda e cuccioli di foca.