Il mese di settembre si sta rivelando molto delicato per la definizione dei futuri equilibri nella regione balcanica. Tra tensioni e rivalità, conflitti latenti che si riaccendono e dispute territoriali ancora irrisolte, i Balcani restano fedeli alla loro storia di area complessa e problematica, segnata da una cifra di instabilità geopolitica quasi ‘genetica’. Nella regione che – secondo un celebre adagio – «produce più storia di quanta non riesca a consumarne», nuove pagine sono state scritte negli ultimi mesi, anche se spesso lontano dai riflettori: la vera sfida – e la difficoltà congenita – sta nello scrivere la parola ‘Fine’ per chiudere un capitolo e cominciarne uno nuovo.

Sul fronte dei negoziati tra la Serbia e il Kosovo, i colloqui del 7 settembre con l’alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini hanno confermato quanto il percorso per giungere a una piena pacificazione continui a essere tortuoso e denso di insidie.

Come già raccontato su questo magazine, le tensioni tra Belgrado e Priština erano riaffiorate con particolare vigore ad agosto, a seguito della mancata presentazione da parte kosovara della bozza di statuto dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo. Dopo un mese, le tensioni non paiono essersi stemperate, nonostante il presidente serbo Aleksandar Vučić e il suo omologo kosovaro Hashim Thaçi – incontratisi il 25 agosto ad Alpbach in Austria – avessero ribadito l’intenzione di proseguire nelle trattative per giungere a un accordo, senza escludere l’ipotesi di una ‘correzione dei confini’ di cui da tempo si parla. A Bruxelles però, la Mogherini ha avuto colloqui separati con i rappresentanti di Belgrado e Priština, a seguito del rifiuto opposto da Vučić di incontrare direttamente Thaçi. Secondo quanto riportato dal direttore serbo dell’Ufficio per il Kosovo Marko Ɖurić, Vučić avrebbe addirittura informato l’alto rappresentante di «inganni, bugie e minacce» provenienti da parte kosovara, ma è probabile che il presidente della Serbia non abbia soprattutto gradito le presunte restrizioni imposte dalle autorità di Priština sulle tappe del suo imminente viaggio in Kosovo. Intervistato poi dall’agenzia Reuters, il presidente serbo ha voluto precisare come un qualsiasi accordo con Priština non possa prescindere da una chiara definizione del futuro europeo della Serbia, sottolineando come Belgrado punti alla garanzia dello status di membro dell’Unione Europea nel 2025. Quanto all’intesa con la controparte, Vučić ha poi sottolineato come spesso il racconto sia eccessivamente semplificato: in realtà, se un accordo dovesse essere raggiunto, esso dovrà essere ampio e riguardare anche il cammino della Serbia verso l’UE e ulteriori progressi in campo economico.

Per parte sua Thaçi, che a Priština deve confrontarsi con forze politiche spesso estremamente critiche verso la sua posizione negoziale, continua a sostenere che l’accordo con Belgrado – con una correzione dei confini – rappresenta l’unica strada per garantire al Kosovo il pieno riconoscimento internazionale, l’ingresso nell’ONU e la prosecuzione del cammino euro-atlantico intrapreso. Solo il tempo dirà se l’opzione dello scambio di territori lungo linee etniche – ritenuta da più voci assai rischiosa per la possibilità di riattivare tensioni mai sopite negli Stati multietnici balcanici – sia realmente percorribile.

È invece in Macedonia che domenica potrebbe viversi un momento storicamente importante: gli elettori del Paese saranno infatti chiamati a esprimersi in un referendum sull’accordo che il primo ministro Zoran Zaev ha firmato nel mese di giugno con il suo omologo greco Alexis Tsipras, riguardo all’annosa disputa sul nome della giovane Repubblica balcanica nata con la dissoluzione della ex Iugoslavia. Sin dal 1991, Atene si è infatti opposta al riconoscimento della denominazione ‘Macedonia’ per il Paese confinante, tanto che Skopje fu ammessa alle Nazioni Unite utilizzando l’acronimo FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia): dietro il diniego di Atene, la convinzione che il nuovo Stato cercasse di appropriarsi di un’eredità culturale non sua e il timore che il riconoscimento del nome ‘Macedonia’ aprisse anche a rivendicazioni territoriali sull’omonima regione appartenente alla Grecia. La disputa sul nome ha rappresentato un ostacolo nel percorso di integrazione euro-atlantica di Skopje, con Atene sempre pronta a far valere la sua membership consolidata nell’UE e nella NATO per impedire l’ingresso del giovane Stato in queste organizzazioni internazionali. Dall’altra parte invece, le autorità macedoni hanno continuato a puntare su quel fattore culturale tanto contestato dai greci, erigendo monumenti che richiamavano al glorioso passato e intitolando l’aeroporto di Skopje ad Alessandro Magno.

L’accordo sottoscritto poco più di tre mesi fa rappresenta un passaggio decisivo per il superamento della controversia: in base all’intesa, la Repubblica ex iugoslava sarà riconosciuta come Repubblica della Macedonia del Nord, e sulla base di tale denominazione compirà il suo percorso per l’ammissione a organizzazioni internazionali come la NATO e l’UE; un percorso che la Grecia non ostacolerà. Skopje e Atene riconoscono inoltre la piena validità dei confini esistenti e si impegnano a rispettarsi reciprocamente sui fronti dell’esercizio della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica. Se una delle parti dovesse poi ritenere che uno o più simboli della sua identità culturale sia utilizzato dall’altro contraente, questo dovrà valutare quali misure correttive adottare al fine di risolvere la questione e assicurare la tutela del patrimonio storico-culturale oggetto di discussione.

Le autorità di Skopje sono pienamente consapevoli della sensibilità del tema del nome, e per questo il quesito referendario non fa riferimento alla denominazione di Macedonia del Nord. Domenica 30 settembre, gli elettori saranno chiamati a rispondere a una domanda incentrata sull’indirizzo politico da assumere, esprimendo il loro consenso sulla futura partecipazione del Paese alla NATO e all’UE, attraverso l’accettazione dell’accordo sottoscritto dalla Macedonia e dalla Grecia. Presumibilmente il ‘sì’ vincerà, ma perché il referendum sia valido è necessario che l’affluenza superi il 50%+1 degli aventi diritto. Sul raggiungimento del quorum nessuna ipotesi può essere esclusa: in primo luogo, gli elettori ufficialmente registrati sono circa 1,8 milioni, troppi per un Paese di circa 2 milioni di abitanti. È dunque probabile che nel corso degli anni le liste non siano state adeguatamente aggiornate, mantenendo artificiosamente alto il numero degli aventi diritto di voto: perché dunque il quorum sia raggiunto, oltre 900.000 persone dovranno recarsi alle urne.

Ci sono poi tutte le incertezze legate all’ambiguità della posizione dell’Organizzazione rivoluzionaria interna della Macedonia-Partito democratico per l’unità nazionale macedone (VMRO-DPMNE), principale partito di opposizione, che pur avendo criticato l’accordo ha lasciato libertà di scelta ai suoi elettori sul voto, senza dare specifiche indicazioni sulla partecipazione alla consultazione o sul suo boicottaggio. Il presidente della Repubblica ed esponente del VMRO-DPMNE Gjorge Ivanov ha già annunciato che non si recherà ai seggi. Pur avendo valore sostanzialmente consultivo, il referendum ha un significato politico estremamente importante: se da una parte infatti l’accordo contempla modifiche costituzionali per le quali sarà comunque necessario un voto a maggioranza dei 2/3 del Parlamento, dall’altra il socialdemocratico Zaev è pienamente consapevole del fatto che un incontestabile successo referendario metterebbe in difficoltà il VMRO-DPMNE, che non potrebbe a quel punto opporsi in Parlamento ai contenuti di un accordo forte della legittimazione popolare. Occorrerà però vedere quanto la prospettiva euro-atlantica funzionerà da richiamo per l’elettore macedone: come ha osservato su Foreign policy il politologo Florian Bieber, la partecipazione della Macedonia alla NATO collocherebbe Skopje nel pieno dello scontro tra l’Occidente e la Russia; posizione questa certamente scomoda. E che Mosca sia fermamente contraria all’allargamento dei confini dell’Alleanza atlantica e dunque alla membership macedone, è cosa acclarata. Quanto all’ingresso nell’UE, il percorso sarà inevitabilmente lungo e complesso, e anche nei Balcani Bruxelles comincia a esercitare meno fascino che in passato.

La parola passa dunque ai macedoni, che dovranno decidere quale indirizzo dare al Paese. Dopo il voto però, la partita non potrà dirsi chiusa: sull’accordo sarà infatti chiamato a pronunciarsi anche il Parlamento greco, dove non sono affatto mancate le voci critiche. E il leader di Greci indipendenti (ANEL) Panos Kammenos – alleato di Tsipras al governo – ha già fatto sapere di non essere intenzionato ad appoggiare l’intesa, costringendo il primo ministro ellenico a rivolgersi altrove per ottenere i voti necessari.

Crediti immagine: Diego Delso. Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)

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