‘I soldati del califfo continueranno a crescere e a diffondersi nel Bengala, e la loro azione proseguirà’. Con queste parole - pronunciate nel novembre del 2015 - il sedicente Stato islamico annunciava l’intenzione di radicarsi ulteriormente in Bangladesh, espandendo la sua rete del terrore. Un proclama dettato più dall’esigenza di alimentare la propaganda che non collegato a una reale capacità operativa nei territori obiettivo di conquista? Forse in parte, ma oggi ­– a due settimane dal brutale attentato all’Holey Artisan Bakery della capitale del Bangladesh Dhaka, costato la vita a 20 persone e 9 nostri connazionali – quelle minacce assumono una diversa consistenza, vanno lette sotto una nuova luce e impongono una seria riflessione, perché il mondo non si faccia trovare, come troppe volte è accaduto negli ultimi anni, impreparato. Sull’attacco perpetrato in un locale notoriamente frequentato da stranieri, Daesh ha apposto la sua firma; una rivendicazione che il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – nella sua informativa al Senato – ha dichiarato attendibile anche in forza delle valutazioni effettuate con colleghi diplomatici e dell’intelligence di altri paesi. E anche dalla premier del Bangladesh Sheikh Hasina Wazed - fino a pochi giorni fa decisamente più propensa a ricondurre entro un alveo più circoscritto i gravi episodi che da tempo si verificano nel paese e comunque ferma nella sua tesi che l’autoproclamato Stato islamico non avesse attecchito a Dhaka - è arrivata una prima, importante ammissione: nel paese esiste un problema di terrorismo islamico. Il radicalismo in Bangladesh non ha risparmiato nessuno dei ‘nemici giurati’ dell’Islam, dai cristiani ‘crociati’ alla minoranza indù, dagli infedeli musulmani sciiti ai membri della comunità LGBT, fino ai blogger brutalmente assassinati per aver osato difendere il valore del secolarismo. Le premesse per un’operazione terroristica su più vasta scala c’erano dunque tutte, anche se non sono state adeguatamente valutate. Con l’attacco all’Holey Artisan Bakery c’è però stato un evidente ‘salto di qualità’ dal punto di vista strategico: un attentato di massa ha maggiore risonanza rispetto all’uccisione di singoli obiettivi, e colpire cittadini stranieri comporta un’eco ulteriormente amplificata, tanto più se si tratta di occidentali. Gli attentatori erano giovani provenienti da famiglie benestanti, non appartenevano a quella retroguardia che guarda al futuro senza speranza, né tanto meno provenivano dalle banlieues e dalle periferie europee, ragazzi di quella seconda o terza generazione di immigrati cresciuti in una terra di nessuno e facili prede di una sanguinosa retorica. Né peraltro avevano studiato nelle madrasse, le scuole coraniche dove non di rado si registrano episodi di marcata radicalizzazione. Sintomo dunque di una retorica e di una propaganda sempre più raffinate, che riescono a colpire l’obiettivo e a farsi spazio in variegati segmenti di società. L’IS poi sta diventando il brand più attrattivo della galassia del terrore, e una più o meno diretta affiliazione – o comunque un richiamo alle sue modalità operative – finiscono per attirare l’attenzione sull’attacco compiuto, obbligando a prendere sul serio la minaccia. Ora che ad essere colpiti sono stati cittadini stranieri, il Bangladesh non potrà più minimizzare e dovrà fornire risposte, perché le cancellerie estere raramente si accontentano di motivazioni di comodo.

Sotto il profilo geopolitico inoltre, i fatti di Dhaka confermano una verità troppo spesso sottovalutata: il network del terrore è oramai a tutti gli effetti globale, e la sua presenza a oriente del Pakistan, nei territori del Subcontinente indiano e del Sud-Est asiatico, è una realtà con cui occorre fare i conti. Lo sa l’India, territorialmente prossima al Pakistan, al Bangladesh, e ‘colpita’ dalla minaccia del califfo di espandere le sue conquiste fino al Kashmir per combattere gli ‘apostati’; e naturalmente lo sa la Cina, finora estremamente prudente ma ben consapevole di dover vigilare sul suo enorme territorio, dove porzioni della minoranza musulmana degli uiguri dello Xinjiang possono cedere alle sirene di Daesh. Del resto, tanto al-Qaeda prima quanto Abu Bakr al-Baghdadi poi, non hanno fatto mancare le minacce a Pechino per il modo in cui gli uiguri vengono trattati, e ad oggi circa 300 di loro si sarebbero uniti all’autoproclamato Stato Islamico.

La minaccia non sfugge poi alla Thailandia, che con le sue attrazioni turistiche presenta diversi obiettivi sensibili che potrebbero essere colpiti perché frequentati dagli ‘apostati’.

Come poi ha ben ricordato Joseph Chinyong Liow, Senior fellow del Center for East Asia Policy Studies di Brookings, la minaccia terroristica non è affatto un fenomeno nuovo per diverse realtà del Sud-Est asiatico, ed è anzi radicata nella loro storia: a ricordarcelo, in tempi recenti, l’attentato di Bali in Indonesia nel 2002, quello all’Hotel Marriott di Giacarta nel 2003 – poi nuovamente colpito nel 2009 insieme al Ritz-Carlton – o ancora il sanguinoso attacco al traghetto Superferry14 nelle Filippine nel 2004, che costò la vita a oltre 100 persone. L’ascesa dell’IS nel 2014 e il suo successivo consolidamento, accompagnati da una efficacissima quanto martellante propaganda che ha contribuito a definirlo come principale attore del terrore sulla scena globale, hanno poi fatto sì che diversi gruppi espressione del radicalismo islamico in queste realtà dichiarassero la loro affiliazione al sedicente califfato. Una prima manifestazione d’influenza - ricorda sempre Joseph Chinyong Liow - si è avuta con la costituzione nel settembre 2014 di Katibah Nusantara, un’unità militare prevalentemente composta da malesi e indonesiani che combattono per al-Baghdadi nel teatro di guerra del Siraq, dove l’esperimento statale dell’IS – che pure sta perdendo territori – continua. Nel Sud-Est asiatico non sono poi mancati attacchi e rivendicazioni negli ultimi tempi, come nell’importante caso degli attentati di Giacarta di gennaio 2016 costati la vita a 4 persone. Per il momento, evidenziava l’analista di Brookings nel mese di aprile, le capacità operative dei gruppi affiliati all’IS nell’area sembrano relativamente limitate, né esiste un vero e proprio centro di comando del sedicente Stato islamico nella regione. Occorrerà tuttavia restare vigili: se saranno adottate strategie collettive di ampio respiro, la minaccia terroristica - che peraltro non si limita solo all’autoproclamato Stato islamico - potrà essere sradicata.