Nelle elezioni e nelle primarie americane gli Stati sono la chiave di tutto. I risultati, i successi e gli insuccessi non si spiegano senza capire a fondo le dinamiche di ciascuno di essi. Per questo, su AtlanteUSA2020, ne parleremo spesso. In fondo gli Stati Uniti sono un Paese federale di 325 milioni di persone, grande come l’Europa e molto, molto diverso al suo interno. Il nostro viaggio parte, come le primarie democratiche, dall’Iowa.

Quando parliamo di Midwest pensiamo spesso all’Ohio, al Michigan, al Wisconsin e a quella che si chiama la Rust Belt, la regione delle fabbriche arrugginite, che va dal Nord della Pennsylvania a Detroit, all’Ohio, fino a Chicago. Ma a ovest dell’Illinois il Midwest non è quello delle fabbriche: anche l’Iowa è Midwest e non è affatto arrugginito. C’è un potente business delle assicurazioni e Des Moines (capitale dello Stato) è assieme ad Hartford, in Connecticut, il centro delle assicurazioni del Paese; l’industria è soprattutto quella della trasformazione dei prodotti agricoli. Se si esclude l’allevamento dei maiali, l’agricoltura dell’Iowa non produce ciò che finisce direttamente nei piatti delle persone, ma materie prime come granaglie per farine, cibo per gli animali e colture per produrre bioetanolo.

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Queste caratteristiche dell’economia locale hanno reso l’impatto della crisi del 2008 meno drammatico che altrove. «In questi Stati delle praterie ‒ Wisconsin, i Dakotas, il nostro ‒ siamo più cauti dal punto di vista finanziario, non c’era quella esposizione che invece esisteva altrove e che ha causato il tracollo economico di tante famiglie e imprese. Qui i crolli avvengono quando ci sono problemi nel settore agricolo. E questo è uno di quei momenti». Così ci racconta John Norris: veterano della politica democratica dell’Iowa, ha lavorato per le campagne elettorali di Jesse Jackson, è stato presidente del Partito democratico dello Stato, capo dello staff del governatore Tom Vilsack, direttore della campagna di John Kerry in Iowa e poi coordinatore nazionale delle sue “field operation” nel 2004.

La spiegazione della crisi del settore agricolo dell’Iowa sta nella guerra delle tariffe con la Cina, che ha colpito l’export delle grandi aziende agricole, specie per i maiali, nel calo del prezzo delle uova, di cui lo Stato è il primo produttore nazionale (55 milioni di galline per 16 miliardi di uova deposte all’anno!) e per il cambiamento voluto dall’amministrazione Trump delle regole sui biocarburanti, che hanno colpito il mercato dell’etanolo e, di conseguenza, quello del mais. Meno profitti per l’agricoltura significa anche meno gettito fiscale e, quindi, tagli alla spesa pubblica.

Trump 4 anni fa ha vinto l’Iowa con 10 punti di vantaggio, dopo che Obama aveva vinto lo Stato per due volte. Difficile dire cosa succederà: «Di certo in questa parte d’America i suoi numeri caleranno. Il Presidente ha cavalcato la rabbia per le incertezze della middle class e l’ha canalizzata verso gli immigrati, colpevoli di contribuire al calo dei salari. E siccome c’è ancora tanta gente che fa fatica, potrebbe tornare a farlo. Certo, sarà più difficile convincerli che le sue ricette sono quelle giuste e per questo credo che il consenso per lui si ridurrà in questa parte d’America. La crescita della popolazione nella suburbia potrebbe portare più voti ai democratici, specie da parte delle donne, mentre le scelte in materia di agricoltura potrebbero fargli perdere terreno persino in quelle aree rurali che dovrebbero essere il suo punto di forza».

Molto, naturalmente, dipenderà da come si arriverà alle elezioni. Mancano ancora molti mesi e un lungo processo di primarie. Oggi la base è divisa, e nessuno sembra essere così forte da staccarsi nei sondaggi. Ad oggi le primarie non sono divenute uno scontro troppo duro, con attacchi personali violenti: in una contesa con molti candidati, non c’è la certezza che attaccare qualcuno porti voti a chi usa toni forti. Può sottrarne a chi viene attaccato e deviarli su altri. Il meccanismo di assegnazione degli elettori in Iowa (cfr. scheda) è tale per cui è difficile capire davvero chi sarà davanti. «Al momento vedo grande entusiasmo e, forse, con l’eccezione dei sostenitori di Sanders, quel che si sente negli incontri qui è la domanda su chi sia il candidato che ha più chance di battere Trump. I moderati – Biden, Buttigieg, Klobuchar ‒ spiegano di essere loro i più titolati, mentre i più liberal – Sanders, Warren e Yang ‒ parlano di programmi». Secondo John Norris, che ha sostenuto sia candidati “moderati” che più radicali, e che oggi sostiene Warren, il tema della “eleggibilità” non deve essere un’ossessione: «Credo che il momento in cui votiamo cercando di rispondere a quella domanda sia quello in cui perdiamo. Un candidato buono è quello che entusiasma, che motiva gli elettori. A volte sottovalutiamo questo aspetto e ci troviamo poi con il problema di convincere le persone a partecipare al voto. Nominando qualcuno che somigli o piaccia ai repubblicani, credo, rischiamo di far calare la partecipazione. È un errore che facciamo troppo spesso».

I sondaggi degli ultimi giorni in Iowa tendono a favorire Biden e Sanders, con il secondo in ascesa e il primo stabile. Dietro, con svantaggi più e meno ampi, Warren e Buttigieg. Il meccanismo di assegnazione dei delegati può però favorire la seconda scelta degli elettori. Semplificando: da ciascuna delle centinaia di assemblee deve comunque uscire un vincitore; perciò, in una specie di rush finale, gli elettori che hanno votato per chi rimane indietro arrivano a far convergere il loro appoggio su uno dei primi due. Per questo, nelle ultime ore, i candidati stringono patti tra loro per sostenersi a vicenda.

Immagine: Strada di campagna nell’Iowa nord-orientale, Stati Uniti. Crediti: Ken Schulze / Shutterstock.com

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