“Come la Siria ha rovinato la primavera araba”: è il titolo di un interessante articolo di Marc Lynch pubblicato su Foreign Policy lo scorso 3 maggio, in cui la ribellione siriana viene analizzata in prospettiva comparata accanto ai tre casi più emblematici di rivoluzioni almeno apparentemente riuscite: quella tunisina, quella egiziana e quella libica. I tre fronti nordafricani delle ribellioni arabe - che ribattezziamo al plurale evitando la tanto generalizzante quanto diafana e fin troppo romantica etichettatura al singolare di “primavera” – hanno un tratto distintivo comune, pur nella loro articolata eterogeneità che tende a sfuggire a catalogazioni totalizzanti e frettolose: hanno avuto il loro picco ascendente nella cacciata, talvolta più rapida e talaltra assai più difficile e cruenta, dello storico monarca travestito da presidente o del padrone del paese che si presentava solo come “leader” di una ultraquarantennale rivoluzione. A Damasco, quel picco non è ancora stato toccato, e ad oggi non è possibile prevedere se mai sarà raggiunto. Sono trascorsi oltre due anni dalla simbolica data di inizio delle proteste siriane, da quel 15 marzo del 2011 in cui la piazza ha cominciato a contestare con forza il potere autoritario, ricevendo come risposta millantate promesse di riforma del sistema, sperticate lodi per il valoroso popolo che resisteva ai complotti di stranieri e terroristi, e una buona dose di violenza e repressione da parte del regime alawita guidato da Bashar al-Assad. In 26 mesi si è assistito alla progressiva e prevedibile metamorfosi involutiva della protesta in guerra civile, in un inestricabile coacervo di rivalità settarie, religiose e sociopolitiche che potrebbero ben presto portare – se non l’hanno già fatto - la Siria al punto di non ritorno. Oramai nulla sembra più fare notizia nei confini di questa terra incastonata nel cuore del Medio oriente e al centro di macroequilibri geopolitici regionali e globali, e quando le notizie giungono si pone il problema della loro attendibilità, fra emittenti all news del Golfo che supportano apertamente la fazione dei ribelli ed agenzie e TV di Stato che imputano qualsiasi malefatta agli onnipresenti ed eterodiretti terroristi. A farne le spese, oltre alla verità su di un conflitto in cui anche l’informazione sta diventando un’arma di guerra, sono state finora oltre 70.000 persone, decine di migliaia di civili inermi finiti sotto le bombe e piccoli innocenti le cui drammatiche condizioni sono state descritte nel rapporto “Bambini sotto tiro” presentato da “Save the Children” lo scorso marzo, malnutriti, esposti a malattie legate alle pessime condizioni igieniche ed usati come scudi umani, trascurando il fatto che oltre 200.000 di loro non vanno più a scuola.

I periodici incontri internazionali per discutere della situazione e qualche evento sul fronte consentono di puntare di volta in volta i riflettori sulla grande partita geopolitica in corso in Siria. Agli inizi del mese di maggio Israele ha compiuto due raid in territorio siriano, uno dei quali avrebbe colpito il centro di ricerca militare di Jamraya vicino a Damasco, suscitando la reazione del regime di Assad che si è detto pronto a rispondere a quelle che possono essere considerate a tutti gli effetti dichiarazioni di guerra. Nel corso di questi due anni, gli analisti politici hanno più volte osservato come Gerusalemme sia stata piuttosto cauta nel prendere posizione sulla questione siriana, sintomo di una neanche tanto celata preferenza per un regime odioso ma forse meno pericoloso per lo Stato ebraico delle imperscrutabili prospettive del post-Assad, che rischierebbero di consegnare al Medio oriente un Paese dilaniato dalle lotte interne per il potere e in cui islamisti e formazioni jihadiste potrebbero anche avere il sopravvento. Né pare d’altro canto che il regime alawita abbia la forza per reagire a qualsiasi presunta offensiva di Gerusalemme, al di là del relativamente preoccupante annuncio del “semaforo verde” concesso a gruppi di militanti palestinesi in Siria per preparare i missili e organizzare una rappresaglia contro Israele. L’azione intrapresa dallo Stato ebraico è stata condannata da più parti e Recep Tayyp Erdogan - premier di una Turchia grande sponsor dei rivoltosi - ha parlato di “intervento inaccettabile e privo di qualsiasi razionalità, che offre su un piatto d’argento ad Assad e al suo regime illegittimo un pretesto per nascondere il genocidio commesso a Banias”, in cui sono morte oltre 100 persone. Appare tuttavia chiaro che non è Damasco il vero obiettivo di Gerusalemme, quanto piuttosto ciò che Damasco custodisce in termini di arsenali destinati alla minaccia libanese chiamata Hezbollah, fedele alleato del grande nemico regionale israeliano, l’Iran. La priorità di Israele è dunque che quei missili non finiscano in mani considerate pericolosissime dagli eredi della stirpe di Davide.

Sul piano internazionale, sotto un profilo che coinvolge particolarmente anche l’opinione pubblica, il tema che più volte è stato affrontato negli ultimi tempi riguarda il presunto utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad. Alcuni scioccanti video hanno mostrato addirittura le vittime causate dall’uso di questi drammatici strumenti di guerra, circostanza che rappresenterebbe l’attraversamento della famosa “linea rossa” di cui il presidente americano Obama ha parlato e che porterebbe gli Stati Uniti a riesaminare le opzioni sul tavolo. Rimane la spinosa questione delle prove, che nelle parole dell’attuale inquilino della Casa Bianca – a differenza di qualche suo recente predecessore – sono un aspetto tutt’altro che secondario, e dopo quanto detto da Carla Del Ponte sul presunto utilizzo di gas nervino da parte dei ribelli nel corso del conflitto, tutto si è fatto più complicato; tanto che la stessa Commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria di cui la Del Ponte è componente ha ufficialmente smentito di disporre di prove certe sull’uso di armi chimiche da parte di entrambe le fazioni impegnate nello scontro.

Agli Usa è stata imputata un’assenza di strategia sulla questione siriana, ma ciò che sembra trasparire è piuttosto l’intenzione di non volere un coinvolgimento eccessivo sul fronte, essendo ancora vivo nella memoria e nelle casse dello Stato americano l’enorme impiego di risorse umane economiche nei conflitti in Afghanistan e in Iraq. Nonostante il più volte citato slittamento del baricentro geopolitico globale verso il Pacifico, i viaggi del Segretario di Stato John Kerry e dello stesso presidente in Medio oriente paiono testimoniare che Washington non intende disimpegnarsi completamente dal caldo scacchiere, animato peraltro dalla pluridecennale questione israelo-palestinese su cui Obama vorrebbe lasciare nel suo secondo e ultimo mandato una storica impronta.

In tale prospettiva, l’8 maggio Kerry ha incontrato a Roma il ministro israeliano della Giustizia Tzipi Livni, capo negoziatore per lo Stato ebraico con la controparte palestinese, ma nel colloquio è stata sicuramente affrontata anche la questione siriana su cui il Segretario di Stato Usa ha avuto pochi giorni fa un importante confronto con il suo omologo russo Sergej Lavrov.

Russia e Stati Uniti hanno annunciato la volontà di convocare – possibilmente entro la fine di maggio – una conferenza internazionale per porre fine al bagno di sangue. L’inviato speciale per l’Onu e la Lega araba Lakhdar Brahimi ha parlato di un “primo significativo passo avanti”, ribadendo però subito dopo con laconico realismo che si tratta solo di “un primo passo”. L’obiettivo è presumibilmente quello di recuperare i punti salienti fissati nell’incontro di Ginevra del giugno 2012, per far tacere le armi e avviare la transizione, ma la strada verso la tanto auspicata soluzione politica appare molto accidentata. Un’intesa fra un dittatore sanguinario che identifica come “terroristi” tutti i suoi oppositori e un fronte ribelle che ha spesso posto come condizione per aprire il dialogo la rimozione di Assad e della sua cerchia, si profila difficile. I nodi restano dunque tutti da sciogliere, le forze lealiste continuano a mietere vittime sostenendo il regime e i rivoltosi a sferrare le loro offensive in una struttura molto più composita di quanto si immagini, che annovera anche gruppi jihadisti e quaidisti – come Jabhat al-Nusra - che non lasciano tranquillo l’Occidente. I morti aumentano, il contatore dei rifugiati presente sul sito dell’Unhcr ogni giorno avanza e ha superato la cifra di 1,4 milioni, e persino lo splendido minareto della moschea degli Omayyadi nella città vecchia di Aleppo patrimonio Unesco non è stato risparmiato. Inoltre, del giornalista e nostro connazionale Domenico Quirico continua a non sapersi nulla.

Può darsi che la Siria, come ha scritto Marc Lynch, abbia rovinato la primavera araba. O forse, ci ha mostrato una delle sue possibili evoluzioni che noi occidentali, con una certa sufficienza, non avevamo preventivato.