“Niente si crea e niente si distrugge. Tutto si trasforma”.
In natura come in geopolitica.
Da quasi due anni, i venti della primavera araba che soffiano impetuosi sullo strategico scacchiere del “grande Medio Oriente” hanno spazzato via vecchi regimi e determinato l’ascesa di nuovi attori politici, messo in crisi granitiche dinastie e fatto esplodere tutte le contraddizioni che animano la regione più instabile del globo.
Nel cuore pulsante di questa composita ed eterogenea “macroarea geopolitica” che va da Rabat fino ad Islamabad, puntuale come un orologio tristemente tarato sulle scadenze elettorali nella terra di re Davide, è tornato ad infiammarsi da qualche giorno il fronte israelo-palestinese.
Le ricostruzioni cronachistiche fanno partire l’escalation della tensione dal 14 novembre, quando un razzo israeliano ha colpito a Gaza City l’autovettura di Ahmed Jabari provocandone la morte. Jabari era il leader carismatico delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas; e la sua notorietà era cresciuta esponenzialmente nel 2006, dopo che aveva escogitato il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit e negoziato il suo rilascio, ottenendo in cambio la liberazione di 1000 militanti palestinesi detenuti nelle carceri di Israele.
Con la sua uccisione, le forze israeliane hanno dato il via all’Operazione “Pilastro di Difesa”, in risposta al lancio di razzi che nelle ultime settimane da Gaza avevano raggiunto il Sud di Israele.
La controreplica palestinese non si è fatta attendere, i miliziani hanno puntato i loro razzi su Tel Aviv e direzionato la loro minaccia anche verso Gerusalemme.
I raid aerei israeliani sulla Striscia sono dal canto loro proseguiti drammaticamente,e il numero delle vittime ha superato le 150 unità. Il Primo ministro israeliano  Benjamin Netanyahu ha anche brandito la minaccia di un attacco via terra, che per ora non si è fortunatamente verificato.
Questa in sintesi la situazione, fino all’accordo sul cessate il fuoco raggiunto il 21 novembre.
Decontestualizzare l’ennesima crisi israelo-palestinese isolandola da quanto sta accadendo nel “grande Medio Oriente” rischierebbe tuttavia di far evaporare la dimensione macrogeopolitica del conflitto e dunque di offrirci una visione parziale della vicenda.
Già su quel 14 novembre c’è molto da discutere. Stratfor, agenzia americana di intelligence ed analisi geopolitica, suggerisce infatti di ampliare notevolmente il raggio temporale della ricostruzione degli eventi e retrodatare al 23 ottobre l’avvio dell’iniziativa israeliana.
Nella tarda serata di quel giorno, la fabbrica di armi “Yarmouk” situata nella capitale del Sudan Khartoum fu improvvisamente attaccata. Responsabili dell’operazione molto probabilmente le forze aree israeliane, persuase del fatto che lì fossero assemblati i razzi iraniani Fajr-5, capaci di colpire Gerusalemme e Tel Aviv se lanciati da Gaza.
Ritorna dunque in gioco l’incubo numero uno di Netanyahu, quell’Iran contro il quale Israele avrebbe già pronto un piano d’attacco, che rimane però ancora in sospeso per l’opposizione del fedele alleato statunitense e del suo presidente rieletto Barack Obama.
Teheran ha inizialmente negato di aver fornito Fajr-5 ai miliziani palestinesi, ma alcuni dei razzi lanciati contro Tel Aviv e Gerusalemme sono proprio Fajr-5 di fabbricazione iraniana. L’ammissione è poi arrivata dal presidente del Parlamento iraniano, che ha riconosciuto il contributo “materiale e militare”  ad Hamas ed ha aggiunto di essere onorato del sostegno che il suo Paese sta offrendo alla causa della Palestina.
Il mosaico si arricchisce così di diverse tessere che aiutano a comporre un quadro sempre più complesso. L’obiettivo di Israele è quello di smantellare l’apparato missilistico presente nella Striscia di Gaza, mentre l’Iran si accredita come difensore della causa palestinese e nel frattempo lascia intendere a Netanyahu che in caso di offensiva contro Teheran, sia da Gaza – dove operano gruppi filo-iraniani molto più pericolosi di Hamas, come ha ricordato in un suo editoriale Lucio Caracciolo – che dal Libano, dove è attivo Hezbollah, partirebbe una prima importante risposta.
Il primo Ministro israeliano, a pochi mesi dalle prossime elezioni, mostra i muscoli facendo trasparire che chiunque minacci Israele è destinato a soccombere, ottenendo così un ritorno d’immagine fra l’opinione pubblica nazionale che si traduce in consensi elettorali; mentre a Teheran Aḥmadīnizhād  può respirare vedendo gli occhi di Netanyahu puntati per un po’ su Gaza piuttosto che sugli eredi dell’antico impero persiano e sul loro programma nucleare.
Senza dimenticare poi, come sempre Stratfor evidenzia, che le tensioni nella Striscia hanno in parte distolto l’attenzione dalla Siria, dove imperversa la guerra civile e Bashar Assad continua la sua lotta per reprimere la ribellione e riconquistare stabilmente il potere politico.
Esattamente quello che spera l’Iran ma che, secondo l’attivista siriano Massoud Akko, tutto sommato non dispiacerebbe neanche ad Israele, che con Assad ha imparato a coesistere.
Durante le ostilità, gli Usa e il presidente Obama hanno sostenuto il diritto di Israele all’autodifesa, ma l’inquilino della Casa Bianca ha altresì sottolineato la necessità di evitare ulteriori escalation.
Il gigante geopolitico a stelle e strisce ha subito invitato l’Egitto del nuovo presidente Mohammed Mursi riesca a mediare fra le posizioni dei contendenti – Obama ha sentito anche il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan affinché si giunga a una rapida soluzione del conflitto.
Dai tempi dell’incidente della Freedom flotilla e della Mavi Marmara, battente bandiera turca e destinata proprio a Gaza, i rapporti fra Israele e Turchia sono tuttavia molto più freddi rispetto al passato; mentre sul fronte egiziano Mursi è costretto a destreggiarsi fra l’esigenza del cessate il fuoco e le pressioni di chi lo invita a rompere con Israele, essendo Hamas nata proprio dalla Fratellanza musulmana a cui il presidente dell’Egitto appartiene.
E’ dunque toccato in primis a Morsi, ma anche al Segretario di Stato americano Hillary Clinton giunta al Cairo, il compito di trovare una soluzione che portasse all’immediata interruzione del conflitto. Lavoro non semplice soprattutto per il presidente egiziano,  costretto a destreggiarsi fra l’esigenza del cessate il fuoco e le pressioni di chi lo sollecitava a rompere con Israele, essendo Hamas nata proprio dalla fratellanza musulmana a cui il presidente dell’Egitto appartiene.
E’ questo un pericolo su cui le diplomazie internazionali sono chiamate a riflettere per correre immediatamente ai ripari. Gli analisti Hussein Ibish e Meir Javendafar hanno rilevato come proprio Morsi sia stato estremamente risoluto nel distruggere alcuni dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia di Gaza all’Egitto, ma se le tensioni nella Striscia dovessero continuare a ribollire e Israele decidesse di lasciarsi andare in futuro alla tentazione di un attacco via terra, Morsi potrebbe cedere alle sirene di chi lo esorta a chiudere qualsiasi canale con Israele e a sostenere i fratelli di Hamas, pur consapevole della travolgente forza di Tsahal, l’esercito israeliano.
Gli scenari si colorirebbero di tinte fosche e il dramma assumerebbe contorni spaventosi, perché se venisse meno l’architrave degli Accordi di Camp David si sgretolerebbe anche l’ultimo fondamento del debole pseudo-equilibrio vigente in Medio Oriente.
L’accordo sul cessate il fuoco è stato intanto raggiunto, segnando un punto a favore delle capacità di mediazione del nuovo Egitto dei Fratelli musulmani, che sarà centrale nel processo di stabilizzazione regionale. Secondo il testo divulgato, Israele s’impegna a cessare qualsiasi attacco militare contro Gaza, compresi gli omicidi mirati; mentre la controparte palestinese ha acconsentito a terminare il lancio di razzi da Gaza verso lo Stato ebraico e gli attacchi lungo il confine. Si precisa inoltre che saranno riaperti a 24 ore dall’accordo (il cessate il fuoco è scattato alle 21 locali del 21 novembre) i valichi della Striscia, ma non si precisa se il riferimento riguardi solo quelli con l’Egitto o anche quelli con Israele.
Considerando che le parti mediavano proprio mentre Hamas si congratulava con gli esecutori di un attentato contro un bus a Tel Aviv, il lancio dei razzi palestinesi alla volta di Israele proseguiva e i raid israeliani verso Gaza andavano avanti, la tregua è comunque un risultato degno di sottolineatura.
Alla notizia del cessate il fuoco i palestinesi si sono riversati in strada esultando al grido di “Allah e grande”, mentre Hamas ha proclamato la “giornata della vittoria”.
Ora bisognerà vedere quanto la tregua durerà.
Molti analisti paragonano gli eventi di questi giorni a quanto accadde quattro anni fa, quando Israele intraprese l’operazione “Piombo fuso”.
Le analogie sono numerose: anche allora si era appena votato negli Stati Uniti, e il Parlamento israeliano sarebbe stato rinnovato di lì a poco, esattamente come oggi.
Solo che la Primavera araba ha reso il fronte ulteriormente instabile, e cambiato gli interlocutori con i quali Israele è chiamato a confrontarsi.
Gli equilibri, o meglio gli squilibri, con il tempo possono cambiare.
Perché in geopolitica, come in natura, niente si crea e niente si distrugge, ma tutto si trasforma.