Dopo quattro anni di negoziati tra delegazione del governo colombiano e guerriglia delle FARC, a seguito degli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale e dell’impegno finanziario dell’Unione europea e degli Stati Uniti a sostegno del processo di pace, e dopo l’approvazione della riforma costituzionale che ha introdotto il plebiscito come strumento di consultazione popolare per la ratifica degli accordi di pace, l’esigua maggioranza del terzo di aventi diritto al voto che si è recata alle urne lo scorso 2 ottobre ha rivelato al mondo il dissenso su una decisione politica che sembrava la linea di demarcazione tra un passato da dimenticare e un futuro promettente.

Tanto è stato lungo, elaborato e complesso il negoziato tra le parti (che ha portato a un testo di quasi trecento pagine, presentato lo scorso 26 settembre a Cartagena de Indias in occasione di un grande evento mediatico alla presenza di numerosi capi di Stato della regione), tanto poco è stato approfondito il coinvolgimento della società civile e della popolazione tutta, che ha seguito con un certo distacco il processo negoziale.

In effetti, il referendum si rivela la falla più grave del negoziato di pace, per troppo tempo trascurata. Le centinaia di migliaia di morti e i milioni di sfollati hanno cambiato il volto di un Paese che, a sua volta, è cambiato in 50 anni. Così, se da un lato le fasce rurali e anziane della popolazione hanno sostenuto con convinzione il “sì”, i più giovani, figli di una nuova Colombia più ricca e sviluppata, hanno meglio recepito il messaggio uribista degli anni Duemila (quelli in cui si sono formati): nel loro immaginario collettivo, alla guerra interna contro le FARC si era sostituita la lotta “contro il terrorismo”. Quindi, più che accordi di pace servivano politiche di sicurezza e di forza, argomenti che hanno caratterizzato in larga parte la posizione di Uribe durante i suoi due mandati. Ecco dunque che sia coloro che hanno vissuto e vivono la tragedia del conflitto armato, sia quelli che se lo sono sentito raccontare e ne hanno vissuto la violenza solo come forma di terrorismo, probabilmente “si sono incontrati” nella comune, scarsa convinzione di andare al voto.

Di certo, come hanno sottolineato in molti, la gestione del capitolo della “giustizia transizionale” ha determinato uno scollamento con la sensibilità dei milioni di colombiani colpiti dal conflitto, generando, se non altro, un forte scetticismo, tradottosi nella paura diffusa che proprio grazie agli accordi di pace il leader guerrigliero Timoshenko si sarebbe potuto candidare alla presidenza della Repubblica del 2018.

Nelle prime ore dopo il voto, il Paese si è scoperto disorientato e smarrito, “tra guerra e pace”. Immediatamente il presidente Santos ha dichiarato che una via per la pace andrà comunque trovata, confermando il cessate il fuoco bilaterale. Dello stesso tenore le dichiarazioni di Timoshenko che, pur rammentando che il plebiscito non ha peso giuridico sugli accordi, riconosce il suo forte e inequivocabile “valore politico”. Il presidente Santos ha subito convocato un tavolo di dialogo con tutte le forze politiche, sia quelle che hanno sostenuto il “sì” sia quelle che hanno sostenuto il “no”. L’ex presidente Uribe, leader del Centro Democratico, dapprima restio a sedersi a quel tavolo, ha poi cambiato idea, dichiarando il suo interesse a “mantenere l’impegno per la pace”, pur riproponendo gli argomenti che avevano animato la sua campagna elettorale a favore “di un altro metodo di gestire gli accordi”. In alcune dichiarazioni, Uribe ha poi lasciato trapelare di essere disponibile a individuare vie nuove per gli accordi, confermando di non essere contrario in toto alla giustizia “transizionale” ma a una sua revisione, uno dei nodi più controversi della campagna elettorale, ovvero l’amnistia per la parte meno grave dei reati compiuti dalle FARC. A rafforzare l’avvio di questo dialogo, l’inedito incontro – mai realizzatosi durante i quattro anni di negoziati – tra Santos e Uribe per ricostruire insieme un percorso di pace.

Il presidente Santos, forte del sostegno della comunità internazionale (lo scorso 26 settembre a Cartagena si erano recati, oltre a tutti presidenti della regione, quelli dei paesi facilitatori, l’alto rappresentante per la Politica estera UE Federica Mogherini, il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, il Segretario di Stato USA, John Kerry, il segretario generale dell’OSA, Luis Almagro; i vertici di Fondo monetario internazionale, Banca interamericana per lo sviluppo e Banca per lo sviluppo dell’America latina), ha visto poi premiati gli sforzi condotti sino a ora, con l’assegnazione del Premio Nobel per la pace 2016, novità inattesa ma ancor più rilevante all’indomani dell’esito del plebiscito.

Si riparte dunque da questo Premio Nobel e da un inedito clima di dialogo sancito proprio dal “no”, che il Paese aspettava da oltre 50 anni: sarà questo il clima in cui si potrà realizzare il pieno coinvolgimento di una popolazione che, a vario titolo e in vari modi, ha vissuto e patito la tragedia del conflitto armato con le FARC? Così, mentre le FARC avevano avviato le operazioni di concentrazione nelle zone indicate negli accordi, e le Nazioni Unite la procedura di raccolta delle armi, il Paese oggi si domanda come portare avanti un processo che appare essere stato penalizzato da questo plebiscito, organizzato forse troppo sbrigativamente per aggirare l’eventuale “trappola” di un’Assemblea costituente (che, se per un verso avrebbe avuto più voce in capitolo sul futuro del Paese e sugli accordi, per altro verso sarebbe stata l’occasione per restituire a Uribe un futuro politico e offuscare il ruolo di protagonista di Santos).

Il plebiscito è stato dunque il tramite con cui è stato politicizzato l’accordo di pace. Il “sì” e il “no” sono stati un voto rispettivamente pro Santos e pro Uribe. Pur se non sfugge che forse proprio questo “no” (che è un “no” a un metodo negoziale e non un “no” alla pace) può costituire l’opportunità di gettare basi più ampie e condivise per il pieno successo degli accordi, è assai chiaro che il futuro della pace non può non passare da un’intesa tra i due leader, l’ex presidente Uribe e il Premio Nobel per la pace Juan Manuel Santos, entrambi interessati a essere i protagonisti della pace: “La paz sí, pero si la firmo yo”, ha brillantemente sintetizzato Héctor Abad Faciolince in un articolo sul quotidiano El País.

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