«L’impegno degli Stati Uniti nella NATO è molto forte, rimane molto forte. Io credo nella NATO».

Con queste parole – pronunciate davanti alla stampa – Donald Trump ha riaffermato il solido ancoraggio di Washington all’Alleanza atlantica, provato a rassicurare i Paesi partner e cercato di placare gli animi, al termine di un summit NATO che si è rivelato denso di difficoltà. Per lo meno a beneficio di telecamere e microfoni, l’inquilino della Casa Bianca ha mostrato toni conciliatori, sottolineando come – nonostante le critiche avanzate nei confronti dell’Alleanza e di alcuni Stati membri – durante il vertice abbia prevalso un forte spirito di collegialità, senza alcuna animosità durante i confronti privati. Ovviamente, anche in questo caso Trump ha rivendicato i propri personali successi: l’obiettivo di una più giusta ripartizione dei costi della sicurezza tra gli alleati è stato infatti riaffermato, con gli Stati membri che hanno ribadito l’intenzione di raggiungere il prima possibile il target del 2% del PIL in spese per la difesa, concordato nel 2014 – con un orizzonte temporale decennale – durante il summit dell’organizzazione in Galles. Anzi, ha rimarcato sempre Trump con orgoglio, l’impegno di risorse potrebbe persino essere più sostanzioso, con un chiaro riferimento alla notizia emersa nelle ore precedenti sulla sua proposta che ciascun membro dell’Alleanza destini alla sicurezza il 4% del prodotto interno lordo.

Se però Trump ha lasciato Bruxelles complessivamente soddisfatto, tanto da twittare alla fine un rassicurante «Thank you #NATO2018!», il clima è parso decisamente più teso sia alla vigilia del summit che durante il suo svolgimento. Vertice dell’Alleanza atlantica, visita in un Regno Unito attraversato dalle tensioni politiche legate alla Brexit e incontro con Putin a Helsinki: questa l’agenda degli impegni nel vecchio continente per il presidente statunitense, che prima di partire per l’Europa aveva dichiarato di ritenere il colloquio con il suo omologo russo la parte più facile del viaggio.

Il rapporto tra Donald Trump e l’Alleanza atlantica è stato sin dall’inizio molto controverso: già durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, l’allora candidato repubblicano – non particolarmente legato ai temi di politica estera – aveva infatti criticato l’organizzazione, definendola ‘obsoleta’ e attaccando gli altri Paesi membri, rei di non pagare la loro giusta quota per garantire la piena efficacia dei meccanismi di sicurezza collettiva. «Gli Stati membri della NATO devono pagare di più e gli Stati Uniti di meno»: è questa la filosofia, ribadita sul suo sempre attivo account Twitter alla vigilia della partenza, che ha ispirato sin dal principio l’azione di Donald Trump verso l’Alleanza atlantica.

In realtà – come hanno osservato molti commentatori e analisti – tale approccio non può considerarsi una novità nella politica estera statunitense: il problema del ‘burden sharing’, ossia della ‘condivisione degli oneri’ tra gli Stati membri dell’organizzazione, è stato infatti più volte evidenziato dagli inquilini della Casa Bianca, che hanno sempre reclamato un maggiore impegno degli alleati europei nell’ambito del Patto. «Gli Stati Uniti stanno facendo ben più della loro parte…adesso tocca agli Stati europei occidentali più ricchi fare la loro, e spero che lo facciano»: una frase che oggi sarebbe facile attribuire a Donald Trump, ma che – come ricordava James Goldgeier citandola in una analisi pubblicata sul Washington Post – fu invece pronunciata da John Fitzgerald Kennedy, che rimarcò anche come non fosse più sostenibile per gli Stati Uniti continuare a garantire la protezione militare dell’Europa mentre gli altri Stati NATO non si assumevano i loro oneri. Si tratta dunque di una dialettica non nuova, che ha animato il confronto tra Paesi percepiti esclusivamente come security consumers – pertanto ‘beneficiari’ dei meccanismi di sicurezza – e Paesi ritenuti security producers, in quanto ‘garanti’ di tale sicurezza.

Ancora una volta, Trump ha ripreso questo argomento prima del vertice dell’11 e 12 luglio, lamentando le eccessive spese sostenute dagli Stati Uniti per la sicurezza a fronte dello scarso impegno degli alleati europei, che non solo non destinerebbero alla difesa il 2% del loro PIL, ma dovrebbero versare anni di contributi arretrati. Una considerazione, quest’ultima, che con il tempo è diventata un vero e proprio mantra della retorica trumpiana verso la NATO, funzionale a guadagnare il consenso di una parte dell’opinione pubblica americana sulla sua ‘linea dura’, ma non corrispondente a un corretto inquadramento del finanziamento delle attività dell’Alleanza atlantica.

Se da una parte – come si è detto – il richiamo a una condivisione più equa degli oneri non rappresenta una novità nell’approccio statunitense alla NATO, dall’altra le posizioni espresse da Trump hanno destato molte più preoccupazioni di quanto non accadesse in passato. Questo perché tali posizioni si inseriscono in una cornice diversa e per certi versi non ancora completamente decifrata, quella della visione trumpiana delle relazioni internazionali – improntata al principio guida dell’America first – e della ridiscussione dei rapporti con gli alleati. Il colpo di scena al termine del vertice dei capi di Stato e di governo del G7, con la decisione di Trump di ritirare la propria firma dal documento congiunto, ha lasciato il segno; così come la marcata chiusura protezionista che non ha risparmiato neppure il Canada e l’Unione Europea. Il nodo dei commerci rappresenta peraltro un nervo scoperto per l’inquilino della Casa Bianca, come emerso anche durante il vertice NATO: come può l’Europa – è l’assunto di Trump – pretendere di godere della benevola protezione statunitense quando poi Washington paga un forte deficit commerciale rispetto ai Paesi dell’UE? A rendere ulteriormente teso il clima ha poi contribuito l’attacco diretto del presidente USA alla Germania, rea di versare ‘miliardi di dollari’ alla Russia per le forniture energetiche – e di essere attiva protagonista del progetto di gasdotto Nord Stream 2 – mentre beneficia dell’ombrello protettivo della NATO contro Mosca.

In merito alle decisioni del vertice, sotto il profilo operativo è stato deliberato il lancio della NATO Readiness Initiative, con la messa a disposizione di 30 unità navali, 30 squadroni aerei e 30 battaglioni meccanizzati capaci di mobilitarsi entro 30 giorni; è stato  ribadito l’impegno nella lotta contro il terrorismo e nel campo della difesa cibernetica e ancora confermato il lancio di una nuova missione di addestramento in Iraq oltre che un rafforzamento del sostegno alla Giordania e alla Tunisia.

Alla fine però i riflettori – ben più che sulle decisioni del summit – erano soprattutto puntati sulle parole e sugli atteggiamenti, sulle prese di posizione e sulle possibili risposte, sullo sviluppo della dialettica tra Washington e i suoi alleati. Una breccia nel fronte occidentale – complice la crisi che stanno attraversando le democrazie liberali – pare essersi aperta, ma per il momento gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a rinunciare alla NATO.

Anzi, ha dichiarato alla stampa Trump, oggi l’Alleanza atlantica è molto più forte di quanto non lo fosse ieri. E alla domanda di un reporter sulla possibilità che – come accaduto dopo il G7 canadese –  cambiasse idea una volta salito sull’Air Force One affidando a Twitter il suo pensiero, il presidente ha risposto: «No. Sono un genio molto stabile».

Crediti immagine: ANSA/EPA

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