Nuova tornata elettorale in Turchia, con i cittadini chiamati il prossimo 31 marzo alle urne per scegliere oltre 20.000 amministratori locali. Elezioni importanti nonostante non tocchino direttamente governo e Parlamento, a causa della complicata e tesa situazione politica interna, della centralità del Paese in molte questioni internazionali di grande rilevanza e per l’enfasi che il governo ha posto su una chiamata alle urne definita una battaglia per la “sopravvivenza nazionale”.

Occhi puntati soprattutto sulle grandi città, Istanbul, Ankara e Smirne, dove regna l’incertezza sull’esito, in particolare nella capitale, nonostante il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo Partito della Giustizia e dello sviluppo (AKP, Adalet ve Kalkınma Partisi) siano usciti vittoriosi da ogni consultazione degli ultimi diciassette anni. Questo perché il Paese attraversa momenti di grave difficoltà economica e si attende di vedere se l’elettorato rinnoverà la fiducia al governo o manderà un segnale di scontento attraverso un cambiamento nelle cariche amministrative.

Come per le elezioni politiche dell’anno scorso, l’AKP di Erdoğan ha mantenuto in quasi tutte le circoscrizioni l’alleanza di fatto, pur non formalizzata dalle leggi in vigore, con il Partito del Movimento nazionale (MHP, Milliyetçi Hareket Partisi), schieramento ultranazionalista guidato da Devlet Bahçeli.

Anche l’opposizione ha dato battaglia attraverso un’alleanza di fatto: il Partito repubblicano del popolo (CHP, Cumhuriyet Halk Partisi) e la formazione ultranazionalista del Buon partito (İYİ Parti) hanno presentato candidati in comune, soprattutto nelle grandi città contese.

Discorso a parte per il Partito della Democrazia del popolo (HDP, Halkların Demokratik Partisi), di sinistra e filocurdo, la cui dirigenza ha impresso una svolta strategica ritirandosi dalle regioni occidentali per concentrarsi nelle roccaforti del Sudest del Paese. La co-leader del partito Pervin Buldan ha spiegato che si tratta di una scelta giunta dalla base del partito. La mossa ha un doppio obiettivo: nell’Ovest lasciare campo libero all’alleanza CHP-MHP e non disperdere voti d’opposizione, riconquistare le città dell’Est dove l’HDP è in netta maggioranza, ma dove il governo ha esautorato i precedenti sindaci eletti e li ha sostituiti con commissari nominati da Ankara, sull’onda della reazione al tentato golpe del 2016 che ha portato in carcere 8 parlamentari, 68 sindaci e quasi 7000 attivisti di base.

Ma l’avversario più temibile, per Erdoğan, si chiama economia. La crescita turca è crollata dal +7,4% al 2,6% in un anno, l’inflazione è ormai stabilmente sopra il 20% e il tasso di disoccupazione ha appena toccato un nuovo record del 13,5%, con 1 milione di posti di lavoro persi negli ultimi dodici mesi e la disoccupazione giovanile al 24,9%. Numeri che fanno mormorare la base dell’AKP e i suoi elettori, legati al governo soprattutto grazie ai successi economici.

Non stupisce quindi che la campagna dell’alleanza di governo sia stata improntata su un tema sensibile per i turchi: la sopravvivenza della nazione, “beka”, idea che lascia affiorare la presenza di una minaccia esistenziale e finanche spirituale.

In campagna elettorale da oltre cinquanta giorni, il carismatico leader e presidente della Repubblica ha tracciato la linea e definito le traversie economiche che la Turchia sta attraversando come frutto di azioni nemiche che cercano di abbattere il Paese. Non c’è alcuna differenza, agli occhi di Erdoğan, tra la guerra siriana alle porte, che minaccia di fagocitare il Paese, la lotta al Partito dei lavoratori curdi (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan), la caccia ai gulenisti ritenuti responsabili del tentato golpe, gli speculatori dei mercati finanziari, i commercianti che alzano i prezzi di frutta e verdura. Che si tratti di lotta armata o competizione dei mercati, tutto ciò che minaccia la nazione (o il suo governo) è bollato come terrorismo e trattato di conseguenza dagli organi di polizia e giudiziari che il governo controlla.

Per tamponare il possibile travaso di voti dettato dalla stringente situazione economica, il governo ha sostenuto i propri candidati locali attraverso misure economiche di welfare dal sapore populista, sia a livello nazionale che locale. Durante la campagna, il governo ha promesso misure quali la quadruplicazione dei sussidi all’allevamento, l’azzeramento fino a fine aprile della tassazione e dei contributi sulle nuove assunzioni, e l’organizzazione di visite oculistiche gratuite ai comizi.

Il messaggio inviato ai cittadini è che non devono sentirsi abbandonati, che il governo è pronto a sostenerli in questo frangente di difficoltà attraverso un welfare robusto che rappresenta da tre lustri l’altra arma vincente di Erdoğan.

La centralità delle grandi città si spiega così: Ankara, Smirne e Istanbul rappresentano insieme oltre un quarto della popolazione totale del Paese, laboratori dove le politiche sociali e di welfare consolidano quel consenso che conduce alla vittoria nelle elezioni politiche nazionali. Ad oggi, l’opposizione controlla solo Smirne (4,2 milioni di abitanti), roccaforte tradizionale e ai margini del Paese sulla costa dell’Egeo. Se dovesse riuscire ad eleggere propri amministratori ad Ankara (5,4 milioni) o addirittura ad Istanbul (oltre 15 milioni), essa avrebbe la possibilità di cominciare a far percepire alla gente le proprie politiche come alternative a quelle del governo. Oltre al prestigio di una vittoria sulle due città simbolo della Turchia.

Anche l’elemento religioso è rientrato prepotentemente nella campagna elettorale: accanto alle consuete tetre profezie sulla reintroduzione del divieto del velo islamico con un’eventuale vittoria dell’opposizione, e alla promessa di porte del paradiso aperte per coloro che voteranno AKP, il presidente turco ha utilizzato il massacro di musulmani innocenti perpetrato in Nuova Zelanda da terroristi di destra come giustificazione religiosa per un voto che vede la “beka” nazionale e la “beka” musulmana riunite in un’unica lotta e sotto un’unica guida: la sua.

Sullo sfondo, la tragica situazione dei media, ormai sotto il completo controllo del governo. A testimoniarlo i dati sproporzionatamente a favore dei candidati di governo sulla presenza (o l’assenza) nei maggiori canali televisivi e radiofonici, ma anche l’evidente e pervasiva narrativa filogovernativa in luoghi strategici come le linee aeree nazionali e i mezzi di trasporto pubblici.

Sull’esito di queste elezioni amministrative aleggia tuttavia lo spettro dei commissariamenti. Finora il governo è ricorso a questa misura soltanto nei confronti di quelle amministrazioni HDP accusate sommariamente di collusione con il PKK. Durante la campagna, Erdoğan e i suoi hanno annunciato e ribadito di essere pronti a ricorrere nuovamente al commissariamento nei confronti di amministrazioni vicine al terrorismo. Il ministro dell’Interno Süleyman Soylu ha annunciato che i tre partiti di opposizione avrebbero presentato 325 candidati in odore di terrorismo. In altre dichiarazioni ha affermato che 178 candidati sono ritenuti legati al PKK, 45 con la rete gulenista, 4 con formazioni di estrema sinistra e 4 con l’ISIS.

Il leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, all’interno di una campagna poco efficace e all’insegna della moderazione, ha attaccato duramente gli esponenti del governo per questo atteggiamento intimidatorio e ha affermato che, se i servizi d’intelligence sono in possesso di queste informazioni, sarebbe dovere del governo intervenire immediatamente e non attendere l’esito delle elezioni.

Le consultazioni del prossimo 31 marzo daranno quindi indicazioni importanti sulla percezione dei cittadini circa le condizioni del Paese, in particolare quelle economiche, ma l’assegnazione delle fasce di primo cittadino potrebbe essere sovvertita da un pesante intervento di un governo che troppo spesso giustifica con la lotta al terrorismo la propria sopravvivenza al potere.

Immagine: Poster per la campagna elettorale a Istanbul, Turchia (5 marzo 2019). Crediti: thomas koch / Shutterstock.com

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