“Entreremo nei loro nascondigli. Pagheranno per questo. Da domani ci potranno essere persone che tenteranno di scappare”. Le parole sono quelle del premier turco Recep Tayyip Erdoğan all'indomani delle elezioni municipali del 30 marzo scorso, che lo hanno visto vincere con ampio margine in tutta la Turchia.

I destinatari della minaccia sono invece i sostenitori di Fethullah Gülen e del suo movimento Hizmet. Gülen è un ricco e influente magnate ed imam turco residente in Pennsylvania, con interessi economici nei campi dell'istruzione, dell'editoria, delle assicurazioni e anche nel settore bancario. Alleato di Erdoğan fin dall'ascesa politica del premier, da più di un anno si è trovato in aperta opposizione alle sue politiche. Erdoğan non ha esitato a indicarlo come l'artefice occulto delle crisi che hanno colpito il suo governo nell'ultimo anno, dalle rivolte del parco Gezi fino all'ultimo gravissimo caso di corruzione che ha visto implicate personalità di spicco del governo. Le elezioni, una sorta di resa dei conti tra Erdoğan e Gülen, hanno decretato una netta vittoria del primo ministro, ma ora il conflitto sembra allargarsi al di fuori dei confini della Turchia. Erdoğan ha infatti iniziato a fare pressioni su diversi governi affinché chiudano le scuole che fanno capo a Fethullah Gülen. Sullo sfondo del conflitto c'è la prossima tornata elettorale: l'elezione diretta del Presidente della Repubblica del prossimo 10 agosto.

Le elezioni hanno visto una forte partecipazione, quasi il 90% dell’elettorato che si è recato alle urne. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) guidato dal premier Erdoğan ha conseguito una prevedibile vittoria. Forse non così scontata era però la misura di questa vittoria. L'Akp ha totalizzato il 45% delle preferenze nazionali, sei punti percentuali in più rispetto alle precedenti elezioni amministrative del 2009, anche se ha registrato una flessione rispetto alle politiche del 2011, dove aveva sfiorato il 50% dei consensi. La vittoria appare comunque senza appello, visto che  il partito Repubblicano del Popolo (Chp) di orientamento socialdemocratico, si è attestato solo al 25%, mentre i nazionalisti del Mhp si sono fermati al 17%. Il partito della Pace e della Democrazia (Bdp) di estrazione curda ha incrementato la sua presenza nelle sue regioni di riferimento, ma senza raggiungere percentuali significative a livello nazionale (6,4%).

Il dato fondamentale rimane che l'Akp ha mantenuto i voti dell'Anatolia profonda, religiosa e conservatrice, e si è aggiudicato anche Istanbul e la capitale Ankara. Non ha vinto invece a Smirne, sulla costa dell'Egeo e nella parte continentale europea, dove hanno prevalso i socialdemocratici del Chp.

Un ampio studio del più importante think tank turco indipendente, SETA, ha analizzato il risultato e l'andamento delle elezioni. Gli autori del report hanno sottolineato come questa tornata elettorale fosse determinante per le prossime elezioni: le presidenziali di agosto e le politiche del 2015. I tre maggiori argomenti per comprendere i risultati del 30 marzo sono il processo di pace con il partito clandestino dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), le rivolte del parco Gezi e lo scontro tra Erdoğan e Gülen, che ha avuto il suo apice nel durissimo scontro sul caso di corruzione del 17 dicembre scorso. I gülenisti, in forze tra la magistratura e le forze dell'ordine, sono stati i maggiori promotori del caso, che Erdoğan è stato abile a trasformare in una montatura internazionale per screditare il suo governo e la Turchia. Il premier ha potuto infatti sfruttare il fatto che Gülen sia residente negli Stati Uniti e presentarlo come un agente di forze internazionali ostili al suo governo.

Per l'Akp questo era quindi il primo di tre tempi elettorali, che determineranno il futuro del partito e di Erdoğan. Il 30 marzo si è trasformato in un referendum sul premier. Il clima di forte polarizzazione politica ha infine aiutato l'Akp, come sostiene Adil Gür, direttore della A&G Research, una compagnia di analisi sulle votazioni. Il Chp e il movimento di Gülen hanno posto l'accento sui principi democratici e le libertà civili. Lo hanno fatto servendosi ampiamente delle rivelazioni sul caso corruzione e delle intercettazioni di vari ministri e alti funzionari del governo e addirittura dei servizi segreti, che hanno spinto il premier a chiudere temporaneamente Twitter e YouTube. In particolare, come rilevato da Bayram Balci del Carnegie Endowment for Peace sul Foreign Policy Journal, l'elettorato conservatore moderato non ha perdonato al movimento di Gülen di aver stretto un'alleanza con il Chp, guardiano del secolarismo più ortodosso, che per decenni ha frustrato le libertà religiose della classe media delle province.

Ma cosa ha pesato di più per l'elettorato turco? Secondo quanto rivelato da Gür a Hürryiet Daily News, la motivazione più profonda emersa dai sondaggi è stata l'economia. Per l’86% di coloro che hanno scelto l'Akp il 30 marzo il voto era motivato da principi economici. La Turchia negli ultimi 12 anni, guidata dall'Akp, si è trasformata in un paese di consumatori e i timori maggiori riguardano la possibilità di un cambio di governo che non garantisca stabilità politica. Le famiglie hanno paura che un cambio di governo si ripercuota negativamente sull'alto debito privato della società turca.

C'è anche un'altra ragione, più semplice, che i sondaggi hanno confermato essere centrale per almeno il 30% di coloro che hanno votato l'Akp. Questa parte di elettorato non sottovaluta i casi di corruzione e la svolta autoritaria del premier, ma realisticamente si chiede chi altro avrebbe potuto votare. Insomma, manca un'alternativa convincente. Il Chp è il partito creato dal fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk, e fa fatica a modernizzarsi. Pur essendo di centro-sinistra, non riesce a entrare in contatto con gli strati più disagiati della popolazione e con i lavoratori. Viene quindi percepito come il partito delle élite.

Per decenni il movimento Hizmet di Fethullah Gülen è stato il pilastro della penetrazione culturale turca in Asia centrale e in Africa e, insieme alla compagnia di bandiera Turkish Airlines e al ministero degli Esteri è stato uno dei tre vettori principali della politica estera di Ankara. Ora Erdoğan ha definito Hizmet un movimento terrorista che utilizza “sporchi giochetti, tra cui accuse di corruzione, ricatti e spionaggio al fine di danneggiarlo”.

Dopo aver chiuso le scuole private di preparazione all'università gestite da Hizmet, un'enorme epurazione ha coinvolto le procure e la polizia, accusate di essere centri di potere del movimento in seguito allo scandalo corruzione. Negli ultimi mesi clienti istituzionali fedeli a Erdoğan hanno ritirato il 20% dei depositi dell'Asya Bank, che fa capo a Gülen. L'amministratore delegato Ahmet Beyaz ha assicurato a Reuters che la banca non era in sofferenza, mentre fonti governative hanno preferito non commentare. Il mese scorso una scuola in Gambia gestita da Hizmet è stata chiusa grazie alle pressioni del governo turco. Hizmet controlla circa 2000 istituti di formazione in 160 paesi. Ora che Ankara ha avviato pressioni verso i governi dei paesi ospiti, e descritto le scuole come centri eversivi e di propaganda antigovernativa, questi istituti rischiano di chiudere. E pensare che solo fino a sei mesi fa, il premier turco e gli altri rappresentanti dello Stato quando erano in visita in questi paesi erano soliti recarsi nelle scuole e ringraziarle per il loro importante ruolo nella costruzione della pace nel mondo.

Questa offensiva causerà però alcuni problemi alla diplomazia turca. In particolare in Africa, la Turchia ha aperto 15 nuove ambasciate negli ultimi due anni, arrivando a quota 35, seconda solo alla Francia, per lo più grazie al precedente impegno delle scuole di Gülen. Inoltre, molti bambini di questi paesi, solitamente poveri, rimarranno all'improvviso senza istruzione. Questo avrà sicuramente un effetto negativo anche sull'immagine della Turchia tra queste popolazioni, che conoscevano e sostenevano Ankara soprattutto per il suo impegno nell'istruzione.

La Turchia uscita dalle urne del 30 marzo ha scelto ancora Erdoğan, ma non ha firmato un assegno in bianco al primo ministro. I casi di corruzione e le tendenze autoritarie dell'Akp pesano sulla popolarità del premier, anche se non sono state determinanti alla prova delle urne. È probabile che Erdoğan voglia al più presto mettere la parola fine sullo scontro con Gülen, per poi concentrarsi sul nodo della presidenza della Repubblica. Il premier non ha ancora deciso se candidarsi, ma qualsiasi sia l'esito delle sue valutazioni, sa che la Turchia è un paese da ricostruire. La riforma costituzionale è ferma dal 2011. Il processo di pace con il Pkk ha bisogno di essere rivitalizzato, perché i Curdi attendono di vedere se le promesse fatte verranno rispettate nei prossimi mesi. Se le speranze curde fossero disattese, la tregua potrebbe cadere e anche una ripresa del conflitto armato sarebbe possibile. L'economia turca ha trovato sollievo solo nel primo trimestre del 2014, dopo un 2013 stagnante. La politica estera è ferma, tanto che Elmira Bayrasli sul New York Times ha parlato di fine del revival ottomano. Erdoğan ha vinto, ma ci sono ancora molti problemi da risolvere.

Pubblicato in collaborazione con Altitude, magazine di Meridiani Relazioni internazionali