Quando nel maggio del 2006 il sindaco di Mosca Yuri Luzhkov finì sotto i riflettori della stampa internazionale per aver vietato il primo gay pride della storia russa, il patriarca Alessio II fu dalla sua parte. La manifestazione era stata bollata dalla Chiesa ortodossa russa come propaganda per il peccato, istigazione viziosa alla deviazione dalla legge divina e naturale. Il Moscow pride ‘06 ebbe poi luogo, nonostante il divieto, in una situazione surreale: pochi manifestanti, centinaia di poliziotti, gente che pregava, attivisti picchiati da skinheads e ultra-ortodossi.

Le successive edizioni del gay pride moscovita registrarono le stesse dinamiche fino alla svolta del 2010, quando nel «caso Alekseyev vs Russia» la Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto la linea di difesa di Mosca, incentrata sul dovere di tutelare morale e convinzioni religiose della maggioranza della popolazione, e ha condannato in via definitiva la Russia.
I diritti degli omosessuali rappresentano il fronte su cui si registra la più tenace opposizione della Chiesa ortodossa russa in materia di diritti umani, tema al centro del volume di Kristina Stoeckl The Russian Orthodox Church and Human Rights (Routledge 2014). Prendendo in esame vicende e questioni che si sviluppano lungo mezzo secolo (dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 alla pubblicazione della Dottrina dei diritti umani della Chiesa ortodossa russa nel 2008), la Stoeckl presenta un’analisi molto ampia che intreccia prospettive sociologiche, diritto internazionale, quadri normativi.
La domanda politico-teoretica che fa da sfondo alla ricerca è chiara: valutare come si colloca la concezione «ortodossa» dei diritti dell’uomo nel dibattito internazionale sulle società globali e post-secolari. A tale interrogativo Kristina Stoeckl, politologa all’Università di Vienna, dedica l’ultimo capitolo del libro, ma forse il principale motivo di interesse del volume risiede nella messa a fuoco dei fattori di tensione e di incontro tra Chiesa russa e diritti umani. Il confronto iniziale è segnato dalla cappa dello stalinismo e dal clima della Guerra fredda. Di fronte alla pubblicazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo i vertici della Chiesa ortodossa russa si trovarono infatti in una situazione paradossale: pur vivendo in un regime che limitava fortemente quella libertà religiosa riconosciuta dalla Carta delle Nazioni Unite, negarono che in Unione Sovietica vi fosse persecuzione religiosa. Non solo per paura della repressione, ma anche per la forte convergenza di interessi tra politiche ecclesiastiche e obiettivi del Cremlino nel negare la libertà religiosa a quelle parti della Chiesa russa che a più riprese avevano cercato di distaccarsi dal Patriarcato di Mosca. Fu un’attitudine che segnò tutto il periodo della Guerra fredda: chi, come padre Gleb Yakunin, rivendicò il diritto alla libertà di coscienza, non solo trovò prima il carcere e poi la Siberia, ma subì da parte delle autorità ecclesiastiche pressioni che oltrepassarono la fine dell’Urss. Yakunin fu infatti scomunicato dalla Chiesa ortodossa russa nel 1993 per avere denunciato pubblicamente la collaborazione dei vertici ecclesiastici con il Kgb avendo partecipato ai lavori della commissione d’inchiesta sugli archivi dei servizi segreti istituita da Boris Eltsin.
Nella Russia postsovietica – fa notare Kristina Stoeckl – il confronto della Chiesa con l’orizzonte dei diritti umani fu ostacolato dal peso crescente che nel dibattito pubblico assunse il nazionalismo ultraortodosso, fautore di spinte anti-occidentali e di una visione imperialista che guardava ai territori abitati da popolazioni russe negli Stati baltici, in Ucraina, in Bielorussia.
In questo quadro, diffuso e promosso da un’imponente pubblicistica, i diritti dell’uomo sono stati generalmente raffigurati come strumenti politici attraverso i quali l’Occidente ha cercato di destabilizzare la Russia, avendo quale effetto principale il rafforzamento delle minoranze a scapito dell’identità collettiva russa. D’altra parte l’ingresso della Federazione russa nel Consiglio d’Europa (1996) e la conseguente adesione alla Corte europea di Strasburgo non potevano non avere ricadute sul Patriarcato di Mosca. Tra il 1999 e il 2006 – sottolinea la studiosa – emergono chiari segnali di una volontà da parte della Chiesa ortodossa russa di aprire una riflessione approfondita sui diritti dell’uomo. Nella partita le figure chiave sono due: il metropolita Cirillo, allora capo del Dipartimento per le relazioni estere del Patriarcato di Mosca, e il vescovo Ilarion, che nel 2009 avrebbe preso il posto di Cirillo, divenuto nel frattempo patriarca e leader della Chiesa ortodossa russa. Il cerchio è molto stretto, ma caratterizzato da fitte relazioni con il mondo della politica nazionale e internazionale e da costanti rapporti con la Chiesa romana di Joseph Ratzinger. Si muove attraverso un’intensa attività di conferenze, gruppi di lavoro, iniziative editoriali nelle principali lingue europee, e approda, nel 2008, alla pubblicazione della Dottrina dei diritti umani. Vi si afferma una semantica nuova: i diritti umani non sono da considerarsi come un soggetto chiuso, appartenente a un universo di valori estraneo alla cultura ortodossa russa, ma come una questione che la Chiesa può affrontare con il proprio punto di vista. Che significa anche rispettare le tradizioni e non far prevalere la minoranza sulla maggioranza, l’individuo sulla comunità, la nazione, la famiglia. In questo modo il clash of civilizations si presenta non più come scontro tra due sfere culturali (latini vs ortodossi), ma come scontro tra una visione del mondo laica, individualista e liberale, e una visione religiosa, comunitaria e tradizionale dei diritti umani.
L’operazione, liberando la Chiesa ortodossa russa dallo stigma di nemica dei diritti dell’uomo, ha aperto al patriarcato di Mosca un’agenda internazionale che gli ha consentito di stringere alleanze con i conservatori cattolici e protestanti per sostenere i «diritti» della Chiesa contro il secolarismo aggressivo, la cristianofobia, il «diktat» omosessuale. A New York, a Strasburgo, a Bruxelles. Sul piano interno il Patriarcato di Mosca ha cercato di tradurre le proprie rivendicazioni in termini compatibili con il linguaggio dei diritti umani, ottenendo dal governo russo cospicue concessioni: dall’ora di religione nelle scuole al sostegno del crocifisso negli edifici pubblici, sino all’introduzione dei cappellani militari nell’esercito. Paradossalmente, afferma la Stoeckl, persino il dibattito seguito all’arresto delle Pussy Riot per la preghiera punk nella cattedrale di Mosca finisce per dimostrare l’acquisizione del linguaggio dei diritti umani da parte della Chiesa che, nei suoi vertici, non avrebbe posto la questione in termini di scontro tra spazi religiosi e secolari, né di blasfemia, ma di diritti: il «diritto» dei credenti di non essere offesi nella propria sensibilità religiosa.
Il caso delle Pussy Riot, tuttavia, ha aperto la strada all’introduzione, nel luglio 2013, di una legge che punisce con il carcere chi offende le convinzioni religiose dei credenti compiendo azioni pubbliche in luoghi di culto. Si potrebbe aggiungere che nel discorso pronunciato il 18 marzo 2014 in occasione dell’adesione della Crimea alla Federazione russa, il presidente Vladimir Putin ha inserito un forte richiamo alla comuni radici ortodosse che uniscono i popoli di Russia, Ucraina e Bielorussia, ma è evidente che non si possono far ricadere sulla Chiesa le responsabilità delle scelte politiche del Cremlino. Il Patriarcato di Mosca, in ogni caso, si trova davanti ad una svolta: sostenere lo stato autoritario per rafforzare i privilegi derivanti dal proprio status di religione maggioritaria oppure lavorare per l’ampliamento della legalità democratica.