Il 13 giugno scorso Ben Rhodes, portavoce dell’amministrazione statunitense di Barack Obama, ha parlato della possibilità di fornire armi a un gruppo selezionato di ribelli siriani. Ad oggi, quello è l’unico impegno militare ufficiale che gli Stati Uniti si sono presi in Siria, e le mosse degli americani rimangono molto confuse.

Secondo quanto riferito da Rhodes, ma non è una novità, per Obama il solo uso e o trasferimento di armi chimiche ai ribelli “rappresenterebbe una svolta”. Secondo il Washington Post però non ci sarebbe prova alcuna di un utilizzo di armi chimiche da parte del regime siriano. La giustificazione per intervenire militarmente in Siria sarebbe così venuta meno, dato che non è dimostrabile che Assad abbia oltrepassato la famigerata “linea rossa”.

Ben Rhodes inoltre non ha parlato di come armerà i ribelli, né di no-fly zone. L’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite Susan Rice ha riproposto una delle classiche formule diplomatiche obamiane: “Sulla Siria tutte le opzioni sono sul tavolo, ma nessuna decisione è stata presa".

Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è bloccato dai veti di Russia e Cina e Obama ha più volte ripetuto di non voler intervenire senza autorizzazione delle Nazioni Unite. Il vertice del G8 che si è concluso in Irlanda lo scorso 18 giugno ha prodotto un comunicato sulla Siria che non chiede esplicitamente la fine del regime di Bashar Assad. La Russia ha anche ottenuto che nel documento finale non ci sia alcuna menzione sulla possibilità che gli Usa armino i ribelli, mentre da parte sua Putin continuerà a sostenere il regime.

Secondo le stime dell’intelligence occidentale, in Siria oggi si trovano a combattere circa 200 mila ribelli più o meno armati e inquadrati in diverse milizie. Le forze ribelli vantano però il controllo soltanto di una delle città più importanti della Siria: Raqqa. La perdita da parte dei ribelli della città di Qasayr, nell’ovest della Siria, dopo una sconfitta subita da parte dell’esercito regolare, ha privato i ribelli di un canale verso il Libano, e ha garantito ad Assad una via di fuga sicura verso la costa da Damasco qualora per lui le cose dovessero mettersi male. Dall’inizio del conflitto ad oggi, gli scontri tra forze lealiste e ribelli in tutta la Siria hanno prodotto circa 93.000 morti, secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite.

La possibilità di armare i ribelli è stata avanzata per la prima volta nel settembre del 2012 dal generale David Petraeus, ancora a capo della Cia, nel corso di un incontro con il capo dei servizi segreti turchi ad Ankara. L’opzione Petraeus è sostenuta da un fronte variegato che va dal senatore repubblicano John McCain al democratico Robert Menendez, a capo della commissioni esteri del Senato. Lo scorso 26 giugno il Wall Street Journal, citando sue fonti di intelligence, ha scritto che la Cia avrebbe iniziato ad utilizzare una rete di basi segrete in Giordania per portare le armi in prossimità della Siria. Secondo il Wall Street Journal nell’arco del prossimo mese queste armi finiranno in mano ad alcuni gruppi ribelli siriani.

Lo stesso fronte favorevole ad armare i ribelli è però diviso al suo interno. Molti tra i favorevoli a fornire armamenti anti-carro ai ribelli si mostrano più prudenti sulla possibilità di fornire armi anti-aereo (come chiedono invece gli stessi ribelli per fermare l’aviazione di Assad).

Un’altra opzione sul tavolo è quella di intervenire con degli strikes mirati utilizzando droni o caccia bombardieri contro le basi di stoccaggio di armi chimiche. Le portaerei della V flotta statunitense, che orbitano nel Golfo Persico non lontano dalla Siria, renderebbero possibili tali attacchi aerei.

Gli s_trikes_ replicherebbero quanto avvenuto nel 1998 in Afghanistan e Sudan nel corso dell’operazione “Infinite Reach”, quando l’amministrazione Clinton colpì con missili Cruise da portaerei americane le basi terroristiche in Afghanistan e una fabbrica farmaceutica sudanese, in realtà una base di stoccaggio di armi chimiche.

L’ultima opzione interventista è quella che spinge per l’imposizione di una no-fly zone. Anche i favorevoli a questa scelta sono divisi al loro interno. Imporre una zona d’interdizione aerea sulla Siria significherebbe attaccare preventivamente 23 basi aeree e sostenere costi di circa 50 milioni di dollari al giorno, senza considerare il rischio di una guerra su più larga scala. Il 14 giugno sul Wall Street Journal è stata avanzata la possibilità di una“piccola no-fly zone” da imporre assieme all’invio di armi ai ribelli, creando così una zona cuscinetto al confine con la Giordania, dove gli Usa nelle scorse settimane hanno spostato delle batterie di missili terra-aria Patriot e aerei caccia F-16.

La sconfitta di Bashar Assad oggi non è più certa come sembrava nel dicembre 2011, quando l’ambasciatore americano in Siria Robert Ford disse che il regime “aveva i giorni contati”. La presenza, seppur con diversi gradi di coinvolgimento, di attori stranieri nel conflitto, dal Qatar alla Turchia passando per l’Arabia Saudita schierati sul fronte dell’opposizione siriana, mentre Iran e Hezbollah (con il sostegno politico decisivo di Putin) sostengono Bashar Assad, favorisce uno scenario di frammentazione in sacche di resistenza nelle diverse regioni della Siria.

Il controllo della zona costiera da parte di Assad sarebbe visto con attenzione dalla Russia che ha interesse per i porti di Tartous e Latakia. Anche alla luce di questo dato possono essere lette le dichiarazioni di Yuri Ushakov, consigliere molto vicino a Vladimir Putin, secondo cui “le prove di utilizzo di armi chimiche fornite dall’amministrazione Usa non sono convincenti”. Il documento finale sulla Siria del G8 auspica la convocazione di una conferenza internazionale a Ginevra, senza specificare quando, ma sembra improbabile luglio come inizialmente previsto. I presupposti perché la seconda conferenza di Ginevra (la prima si è tenuta a giugno 2012) replichi l’esito fallimentare della prima sembrano esserci tutti.

Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali

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