Con le dimissioni di Robert Mugabe, lette dal presidente del Parlamento Jacob Mulenda nell’aula riunita per votare l’impeachment, si chiude una lunghissima pagina della storia dello Zimbabwe.

L’ultima settimana è stata un rincorrersi di voci e annunci, smentite e prese di posizione, in un groviglio che spesso è apparso difficilmente districabile. Per il momento, l’esercito ha cercato di predicare la calma per evitare temibili degenerazioni, utilizzando con parsimonia persino le parole: dunque, Mugabe non è stato presentato come un presidente agli arresti domiciliari, bensì come un capo di Stato ‘sotto custodia’, nel quadro di un’azione mirata a «colpire i criminali che lo circondano e che stanno provocando sofferenze economiche e sociali al Paese». Questo l’annuncio di un portavoce dell’esercito nella giornata di mercoledì, mentre la parola ‘golpe’ – impronunciabile ad Harare – cominciava a circolare in altri ambienti.

Gli eventi sono precipitati nel corso delle ultime due settimane: a segnare l’esplosione della crisi è stata infatti la decisione di Mugabe di rimuovere dalla vicepresidenza – lo scorso 6 novembre – Emmerson Mnangagwa, al culmine di una serie di epurazioni all’interno del partito ZANU-PF (Zimbabwe African National Union – Patriotic Front) che controlla le sorti dello Zimbabwe dal conseguimento dell’indipendenza nel 1980. Slealtà, falsità, mancanza di rispetto: queste le accuse nei confronti di Mnangagwa, che dopo essere stato sollevato dal suo incarico ha lasciato il Paese. Secondo Mugabe, il suo vice avrebbe anche diffuso false notizie circa un suo possibile ritiro dalla vita politica, arrivando persino a consultare i profeti della Chiesa apostolica per scoprire quando il presidente sarebbe morto: i profeti però – ha aggiunto Mugabe – avrebbero detto a Mnangagwa che sarebbe morto prima lui.

Al netto delle discutibili profezie, la crisi che si sta consumando in Zimbabwe è eminentemente politica, e si ricollega alle rivalità che sono andate progressivamente crescendo all’interno dello ZANU-PF. Gli sviluppi che si sono registrati negli ultimi quindici giorni – con il picco dell’ultima settimana – non arrivano dunque completamente inaspettati, ma rappresentano la deflagrazione di una lotta intestina covata per anni nelle maglie del potere, dove la posta in gioco è la successione all’ormai novantatreenne Robert Mugabe.

Tra i candidati più accreditati c’è stato a lungo proprio Mnangagwa, veterano della politica dello Zimbabwe e tra i protagonisti della guerra di liberazione che portò al conseguimento dell’indipendenza. Il suo soprannome – Il coccodrillo – lo deve alla sua scaltrezza, che non di rado si è manifestata come assoluta spregiudicatezza. Del resto, lui stesso ebbe a dire che la caratteristica tipica del coccodrillo è quella di cacciare sempre in acqua, senza andare mai alla ricerca di cibo tra i cespugli o nei villaggi, perché sa come colpire al momento opportuno. Così, il presidente ha cercato di neutralizzare il coccodrillo, in modo da spianare la strada per la successione alla controversa first lady Grace Mugabe: questa volta però, il capo dello Stato sembra non aver valutato adeguatamente le conseguenze delle sue azioni. Da una parte, infatti, è indiscutibile che all’interno dello ZANU-PF si sia progressivamente consolidata una giovane generazione – la cosiddetta fazione G40 – che si è formata nel quadro dello Zimbabwe indipendente; una generazione che non ha legami storici e cronologici con il passato coloniale e la successiva guerra di liberazione. In questo gruppo, la candidatura di Grace Mugabe – accompagnata a un cambio di paradigma del partito – era dunque vista positivamente. Dall’altra parte, però, rimane la fazione dei militanti di lungo corso, che dalla guerra di liberazione sono stati forgiati: inaccettabile per loro che lo ZANU-PF diventi una nicchia di potere a uso esclusivo della famiglia Mugabe.

In questo articolato quadro è stato l’esercito a intervenire, anche al fine di preservare la sua posizione di forza nell’ambito dei complessi equilibri che regolano l’architettura di potere dello Zimbabwe. In tal senso l’avvertimento del generale Constantino Chiwenga, prima ancora che le forze armate si muovessero, era stato esplicito: le epurazioni nei confronti di membri del partito collegati alla battaglia per la liberazione dovevano immediatamente terminare e, se la situazione non fosse cambiata, l’esercito era pronto a fare la sua parte per difendere la rivoluzione. Dalle parole si è così passati ai fatti, anche se nella giornata di venerdì Mugabe è riapparso in pubblico durante una cerimonia per la consegna dei diplomi di laurea alla Zimbabwe Open University. Sabato però, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del presidente; un appello condiviso anche dal leader di opposizione del Movement for Democratic Change Morgan Tsvangirai. Ian Khama, capo dello Stato del vicino Botswana, aveva invece sottolineato come un leader non possa restare in carica a lungo come Mugabe, perché alla fine «siamo presidenti e non monarchi».

Le dimissioni attese nella giornata di domenica sono arrivate solo oggi. Se però il destino del leader che ha segnato finora la storia dello Zimbabwe indipendente pare scritto, il futuro del Paese è ancora tutto da decifrare.

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