Ogni amministrazione ha una sua dottrina di politica estera. Perché è costretta in vari documenti pubblici, oltre che nei discorsi presidenziali, a definire una propria visione delle relazioni internazionali e dell’interesse nazionale. E perché le dottrine servono non solo a fissare le coordinate di massima della politica estera, ma anche a convincere l’opinione pubblica interna e, nel caso del soggetto egemone, quella mondiale della bontà del proprio approccio e della propria filosofia. Sono, in altre parole, artefatti discorsivi: strumenti con cui costruire l’indispensabile consenso attorno alle proprie strategie e azioni.

Anche Trump ha dunque una sua dottrina. E pure una dottrina chiara e ben definita; meno opaca o cangiante di quelle di molti suoi predecessori. Quali sono i pilastri, categoriali e operativi, di questa dottrina Trump? In estrema sintesi, ne possiamo individuare cinque, tra loro strettamente intrecciati.

Ostentato e dottrinale realismo

Il primo è il suo ostentato e dottrinale realismo, secondo cui quello internazionale è un contesto anarchico, nel quale ogni soggetto cerca di sfruttare la propria potenza per massimizzare i propri interessi in un contesto intrinsecamente competitivo: in un “gioco a somma zero”, dove l’equilibrio ultimo è garantito dal fatto che al successo di una parte corrisponde ipso facto la sconfitta di un’altra. Nella retorica trumpiana, col suo vocabolario ipersemplificato e le sue schematizzazioni binarie, queste categorie realiste appaiono in continuazione. Ma questo è vero anche per i principali documenti strategici dell’amministrazione. La National Security Strategy (NSS) del dicembre 2017 è puntellata di riferimenti alla competizione di potenza con Cina e Russia e alla necessità di ripristinare la piena sovranità degli Stati Uniti: «La competizione per il potere», vi si afferma, «è una costante centrale della storia … siamo impegnati a difendere la sovranità dell’America». Analoghe considerazioni si trovano nella National Defense Strategy (NDS) del 2018, che individua tre competitori (e minacce) fondamentali per gli USA: le potenze revisioniste come Cina e Russia, gli Stati fuori controllo (rogue states) come Corea del Nord e Iran e le minacce terroristiche transnazionali. Il quadro descritto nella NDS rimanda anch’esso ai pilastri categoriali e all’argot basilare del realismo: il contesto globale, afferma il documento, si contraddistingue per «il riemergere della competizione strategica e di lungo periodo tra le nazioni».

Nazionalismo non-eccezionalista

Il secondo elemento della dottrina Trump è il suo nazionalismo non-eccezionalista. Questo è probabilmente uno dei maggiori elementi di rottura del trumpismo. Un discorso scopertamente, e spesso rozzamente, nazionalista non si accompagna alla consueta rivendicazione di eccezionalità degli USA. In discontinuità con tutti i presidenti del dopoguerra, con la sola parziale eccezione di Nixon (1969-74), Trump rigetta l’idea che vi sia una naturale convergenza tra gli interessi statunitensi e quelli del resto del mondo o una superiorità etica degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali. Il suo non è un nazionalismo universalista e, appunto, eccezionalista. In un sistema anarchico e competitivo non vi sono differenze tra i suoi attori, come Trump ribadì candidamente durante un’intervista con l’ex giornalista di Fox New Bill O’Reilly; quando O’Reilly accusò Putin di essere un “assassino”, il presidente offrì una risposta scioccante: «cosa credi», disse «che il nostro paese sia così innocente?».

Unilateralismo

Il terzo elemento, per molti aspetti scontato, è l’unilateralismo (e qui le somiglianze col Bush post-11 settembre sono assai marcate). Nell’arena internazionale non vi è utilità alcuna nel lasciarsi imbrigliare dentro i meccanismi multilaterali delle organizzazioni internazionali, che limitano la potenza del soggetto dominante, si fondano sulla fittizia pretesa di uguaglianza degli Stati e sono spregiudicatamente sfruttati da quei soggetti, Cina su tutti, che a vincoli e regole riescono a sottrarsi. Di qui la preferenza per informali negoziati bilaterali o per azioni unilaterali; di qui il disinteresse ad usare forum e istituzioni internazionali (tanto che nella disputa con la Cina, l’amministrazione Trump non ha fatto uso dell’arbitrato dell’Organizzazione mondiale del commercio, utilizzato invece a più riprese sia da Bush Jr. sia da Obama).

Militarismo

Quarto: il militarismo. Con Trump è stata invertita la tendenza alla costante riduzione del bilancio della Difesa che aveva contraddistinto gli anni di Obama. Nelle sue richieste per il bilancio 2019 (che non verranno accolte), Trump propone un aumento del 5% delle spese militari da pareggiarsi con tagli massici ad altre voci di spesa, che colpiscono in particolare l’agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA, Environmental Protection Agency) e il Dipartimento di Stato. La retorica e la postura presidenziali hanno, almeno in ambizione, una marcata dimensione militarista e sia nella NSS del 2017 sia nella NSD del 2018 abbondano gli inevitabili riferimenti alla impareggiabile e letale superiorità di potenza militare di cui dispongono gli USA.

Protezionismo

Quinto e ultimo: il protezionismo. Corollario inevitabile di molti dei punti appena menzionati è la critica delle forme d’integrazione commerciale dell’ultimo mezzo secolo. Nei binari schemi trumpiani, passivi e attivi commerciali definiscono chi prevale e chi soccombe nel brutale contesto internazionale. Gli strutturali passivi commerciali statunitensi diventano quindi l’indicatore paradigmatico della condizione di debolezza in cui verserebbero gli Stati Uniti. Iniziative unilaterali, dazi e guerre commerciali diventano così necessari per correggere questo stato di cose: per “rendere nuovamente grande l’America”.

Le approssimazioni concettuali e la grossolanità analitica della dottrina Trump sono evidenti. Come lo sono i cortocircuiti che ne conseguono. Quella trumpiana è una visione di potenza senza egemonia che rinuncia consapevolmente, e dolosamente, ad alcuni degli strumenti fondamentali con cui gli USA hanno costruito negli anni il proprio primato ed esercitato la propria influenza. Il nazionalismo radicale di Trump alimenta reazioni ostili su scala globale con le quali già Bush si dovette confrontare nel 2002-03. Reazioni, queste, che tendono a isolare ancor più gli Stati Uniti. Il militarismo si scontra con la ferma contrarietà di una parte maggioritaria dell’opinione pubblica americana ad appoggiare nuove avventure militari. Unilateralismo, realpolitik e protezionismo offrono risposte al meglio parziali e al peggio pericolose ai tanti dilemmi prodotti dai processi d’integrazione globale dell’età contemporanea, le cui mille interdipendenze vincolano e costringono gli Stati Uniti stessi, in un sistema internazionale che da tempo ormai ha cessato di essere “a somma zero”.

Immagine: Donald Trump in partenza dalla Casa Bianca per Palm Beach, Florida, Stati Uniti (22 dicembre 2017). Crediti: Michael Candelori / Shutterstock.com

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