Lo scorso 1° aprile, il governo giapponese ha ufficialmente annunciato che il nome della prossima era imperiale (indicata in giapponese col termine gengo) sarà Reiwa (令和). I due ideogrammi selezionati dalle autorità significano ordine (rei) e pace, armonia (wa), mentre il nome sarebbe traducibile come l’era della “ricerca dell’armonia”.

Nonostante l’incoronazione ufficiale del principe Naruhito sia attesa per ottobre, l’era Reiwa dovrebbe avere inizio il 1° maggio, ossia il giorno seguente alla formale abdicazione da parte dell’imperatore Akihito, che chiuderà così l’epoca Heisei. Se solitamente l’annuncio del nuovo gengo segue la salita al trono del nuovo imperatore, in questo caso si è deciso di operare diversamente per la peculiare natura della successione, e operare in anticipo permetterebbe di minimizzare i disagi causati dal cambio di calendario. Come da consuetudine nipponica, l’inizio di una nuova era comporta anche l’inizio di un nuovo calendario imperiale, che si affianca a quello gregoriano. Il Giappone è l’unico Paese al mondo che continua a mantenere entrambi, oltre ad essere l’unico a mantenere l’istituzione imperiale (nonostante si tratti in realtà di una monarchia parlamentare).

Di conseguenza, dal mese di maggio il 2019 sarà anche indicato come Reiwa 1: un cambiamento non in astratto, ma che inciderà anche sulla quotidianità della popolazione, andando a fissarsi su monete, banconote e documenti istituzionali. Vi è tuttora un forte dibattito all’interno della società giapponese riguardo l’opportunità di mantenere questo doppio sistema, che risulta particolarmente confusionario per alcune categorie professionali. Altri invece sostengono che sia giusto mantenerlo, poiché idealizzato come retaggio di un determinato periodo storico e segno tangibile dell’evoluzione del Paese.

La scelta dei due caratteri sopracitati indica anche una cesura rispetto al passato, poiché solitamente gli ideogrammi venivano selezionati dai grandi classici della calligrafia cinese. In questo caso, le autorità di Tokyo si sono ispirate all’opera classica Manyoshu, la più antica collezione di poemi della storia giapponese e descritta dal presidente Abe come il simbolo della grande cultura e tradizione del Paese. Il discostarsi dall’uso dei caratteri cinesi, utilizzati sin dal 645 d.C. con l’inizio dell’era Taika, non è passato inosservato ed è anzi stato interpretato come diretta conseguenza della matrice nazionalista del governo in carica.

Nel Giappone moderno, la titolatura delle ere serve ad indicare la durata dei regni. La pressoché conclusa era Heisei è iniziata nel 1989, anch’essa con la volontà di raggiungere la pace in un momento di grandi cambiamenti globali. Tornando indietro alle epoche precedenti, invece, non troviamo esattamente lo stesso spirito di accomodante benevolenza e ricerca della pace. Era un Giappone molto diverso rispetto a quello che conosciamo oggi, soprattutto nelle due ere che segnarono il passaggio alla modernità. Infatti, durante il lungo medioevo caratterizzato dall’istituzione dello shogunato (circa dal 1185 al 1868) l’imperatore aveva un ruolo prettamente simbolico, e il potere era pressoché totalmente concentrato nelle mani dello shogun. Le cose cambiarono nel 1868, con quella che viene comunemente indicata come Restaurazione Meiji. La scelta del termine restaurazione non è casuale, poichè proprio in nome del sovrano era stato possibile raggiungere quella inarrestabile modernizzazione che in pochissimo tempo condusse il Giappone al livello delle potenze occidentali. L’era Meiji (1868-1912) restaurava la figura imperiale, ripotava l’imperatore al centro della società, gli restituva il culto divino che deriva dalla natura del suo potere, lo riportava alla ribalta del dibattito politico e istituzionale. La restaurazione della centralità della figura imperiale venne affiancata dall’inesorabile ascesa del Paese. Alla morte dell’imperatore Meiji nel luglio del 1912, il Giappone era già diventato una potenza a livello internazionale e il suo recente passato feudale era ormai un ricordo.

L’epoca Showa, inaugurata dalla salita al trono di Hirohito nel dicembre 1926, fu un altro periodo fondamentale nella storia giapponese. Furono gli anni della grande espansione coloniale e imperialista in tutta l’Asia Sudorientale, culminati poi nel secondo conflitto mondiale e nella catastrofe atomica di Hiroshima e Nagasaki. Proprio questo momento, quello della resa, divenne un passaggio fondamentale nella storia imperiale del Giappone: il discorso di Hirohito, trasmesso via radio in tutto il Paese, non solo annunciava la resa, ma demistificava la propria figura. L’imperatore non aveva nessuna discendenza divina, non era l’incarnazione vivente della grande dea Amaterasu, ma semplicemente il simbolo della nazione e dell’unità del popolo.

Questa rivelazione fu un vero shock per la popolazione, ben più incisivo rispetto alla sconfitta patita. Infatti, per la stragrande maggioranza dei giapponesi fu la prima volta in cui sentirono la voce del loro imperatore; e stava dichiarando la resa e ammettendo di non avere nessun retaggio divino. Non deve quindi stupire l’ondata di suicidi che seguì il discorso di Hirohito, poichè l’imperatore non era solo il simbolo della nazione, ma le sue stesse fondamenta. L’imperatore era la nazione.

Questa scomoda eredità, nonostante i tentativi delle frange più nazionaliste, è stata messa da parte e ora l’alternanza imperiale e il passaggio da un’era all’altra rimangono sì un momento molto sentito dalla popolazione, ma con un simbolismo tendente all’unione e non alla divisione. Le Olimpiadi di Tokyo del prossimo anno sono sempre più vicine, quale migliore occasione per presentare al mondo l’inizio di una nuova era?

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