Provocazioni e risposte, retorica accesa e – dall’altra parte – inviti a non sfidare quella che resta la maggiore potenza militare globale, manovre per far sentire la propria presenza nella regione e – dal fronte opposto – minacce miste a propaganda. Nel mezzo, come interlocutore di entrambi gli attori coinvolti, c’è chi invita alla calma e a evitare pericolose escalation, affinché non si raggiunga il punto di non ritorno.

Le tensioni tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord sono considerevolmente cresciute nelle ultime settimane; con Pyŏngyang che continua a puntare sul proprio programma nucleare e missilistico e Washington risoluta nella sua opposizione, pronta anche a mostrare i muscoli per far intendere al regime di Kim Jong-un che questa volta si fa sul serio. Il dossier nordcoreano è stato al centro dei colloqui tra il presidente statunitense Donald Trump e il suo omologo cinese Xi Jinping nel corso del recente vertice di Mar-a-Lago in Florida, durante il quale l’inquilino della Casa Bianca ha, peraltro, informato il suo collega del lancio da parte americana di 59 missili tomahawk contro la base di al-Shayrat in Siria: di fatto – è stato il commento della maggior parte degli analisti – un avvertimento alla Corea del Nord e una sollecitazione alla Cina – che con Pyŏngyang ha un canale di contatto preferenziale – perché si occupi del riottoso vicino.

Per far arrivare un messaggio ancora più chiaro alla nomeklatura nordcoreana, Washington ha inoltre lanciato una Massive Ordenance Air Blast Bomb (MOAB) – nota anche come Madre di tutte le bombe – contro obiettivi del sedicente Stato islamico in Afghanistan, dopo aver annunciato nei giorni precedenti che la portaerei a propulsione nucleare USS Carl Vinson, assieme al suo gruppo da battaglia, si sarebbe diretta verso la penisola coreana. «Stiamo inviando una ‘Armada’ molto potente e abbiamo sottomarini ben più potenti della stessa portaerei» aveva dichiarato Trump, prima che alcune fotografie diffuse dalla Marina USA mostrassero come in realtà la USS Carl Vinson fosse ancora, alla vigilia di Pasqua, nei pressi dello Stretto di Sunda in Indonesia, a 3500 miglia dalle acque coreane.

Alla prova muscolare della Casa Bianca, Pyŏngyang ha risposto con la solita abbondante dose di retorica, sottolineando che le provocazioni statunitensi avranno conseguenze ‘catastrofiche’ e di essere comunque pronta alla guerra se gli USA dovessero scatenarla. A corredo delle dichiarazioni, il 15 aprile – in occasione delle celebrazioni per il centocinquesimo anniversario della nascita del padre della patria Kim Il Sung – il regime ha poi fatto sfoggio del suo arsenale, sulla cui reale consistenza non mancano peraltro i dubbi; mentre il tanto temuto sesto test nucleare per ‘festeggiare’ una ricorrenza così importante non è avvenuto. Il giorno successivo, invece, il tentativo di lanciare un nuovo missile è fallito.

Nuove fiammate di retorica hanno poi accompagnato l’inizio – nella giornata di domenica – delle  esercitazioni della marina giapponese con l’alleato statunitense nell’Oceano Pacifico, esercitazioni a cui prende parte proprio la portaerei USS Carl Vinson assieme ai cacciatorpedinieri nipponici Ashigara e Samidare. L’avvertimento è arrivato questa volta attraverso il giornale Rodong Sinmun, dalle cui colonne il regime di Pyŏngyang si è detto pronto a mostrare tutta la sua forza militare affondando con un solo colpo la portaerei statunitense.

Tramite il portavoce Gary Ross, il Pentagono ha immediatamente preso posizione, sollecitando la Corea del Nord ad astenersi dalla retorica provocatoria e da azioni destabilizzanti per rispettare, invece, i suoi obblighi internazionali. Trump ha anche sentito al telefono il primo ministro giapponese Shinzo Abe, che ha confermato la piena comunione d’intenti tra Tokyo e Washington per dissuadere Pyŏngyang dal compiere iniziative pericolose; ma è la linea di collegamento con Pechino a essere ancora più cruciale in questo momento. Il presidente statunitense ha, infatti, sentito anche Xi Jinping, che – secondo quanto riportato – ha ribadito in modo convinto l’opposizione del suo Paese a qualsiasi attività che sia in contrasto con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con chiaro riferimento alle decisioni – e relative misure sanzionatorie – già messe in campo per contrastare l’attivismo militare del regime di Kim. Peraltro, la stessa Cina ha adottato un approccio più duro nei confronti di Pyŏngyang, bloccando nel mese di febbraio le importazioni di carbone dalla Corea del Nord, per quanto complessivamente il commercio tra i due Paesi risulti aumentato nei primi mesi dell’anno.

Presa tra due fuochi – da una parte i rapporti con l’alleato nordcoreano e dall’altra la necessità di affrontare la questione nel più ampio quadro delle relazioni con Washington – Pechino invita comunque tutte le parti coinvolte alla calma e chiede agli stessi Stati Uniti di usare moderazione, perché le conseguenze di una guerra sarebbero disastrose. Intanto, gli USA hanno anche inviato nel porto sudcoreano di Busan un sottomarino nucleare e avviato l’installazione – sempre in Corea del Sud – del sistema antimissilistico THAAD, cui si oppone la Cina. Trump ha inoltre convocato alla Casa Bianca i membri del Senato per un briefing sulla delicata questione nordcoreana.

Sul Washington Post, il professor John Delury ha evidenziato come un’operazione chirurgica sul modello di quella di al-Shayrat in Siria non sarebbe possibile in Corea del Nord senza scatenare il conflitto: per questo, sarà necessario mantenere aperta la porta del negoziato, magari ventilando l’ipotesi – in cambio del congelamento dei programmi di Pyŏngyang – di elargire alcune concessioni alla controparte, come l’interruzione delle esercitazioni militari congiunte Washington-Seul.

Il vicepresidente statunitense Mike Pence ha avvertito che l’era della ‘pazienza strategica’ di Obama è terminata, e l’amministrazione Trump, in queste prime settimane, sembra aver voluto dimostrare – come del resto più volte affermato – che per contrastare le ambizioni di Pyŏngyang tutte le opzioni sono sul tavolo. L’energico attivismo della nuova presidenza vuole spingere la Cina a esercitare tutto il suo potere persuasivo su Pyŏngyang e lo stesso Kim Jong-un a correggere la rotta. Non è però scontato che tale strategia funzioni. Il regime nordcoreano, più volte sull’orlo del collasso, mira, infatti, innanzitutto a sopravvivere. E Kim potrebbe convincersi del fatto che gli unici strumenti a sua disposizione per resistere rimangano proprio il programma nucleare e quello missilistico.