Per chi osserva l’esito pubblico del primo vertice formale tra Stati Uniti e Federazione Russa, si presenta subito un risultato paradossale: il momento più alto della diplomazia del presidente americano lo precipita in basso nella sua carriera politica. Per Donald Trump non sarà difatti semplice giustificare il sostegno diretto ricevuto, durante la conferenza stampa finale di Helsinki, da Vladimir Putin, capo di uno Stato considerato ostile dagli americani. Il quale, rammentando ai presenti il proprio passato da ex spia, si è diffuso in una spiegazione rivolta, di fatto, a depotenziare la portata delle indagini che da tempo investono e corrodono le basi fondanti dell’autorità di Trump in patria, ossia la sua ambigua vittoria nelle passate elezioni americane. Chiunque acceda alle immagini di quella conferenza e le scruti con attenzione, non può fare altro che constatarne la devastante portata dal punto di vista della politica interna statunitense e del suo impatto globale. Cosicché le accuse rivolte a Trump e al suo entourage dalle indagini in corso in patria – di aver agito di concerto con forze russe per ottenere la propria vittoria elettorale contro Hillary Clinton – sono state smentite, insieme, dai due protagonisti politici principali di tali indagini: l’effetto finale è stato di vero estraniamento.

Da questa prospettiva ha mostrato la forza di un connubio personale che invero esalta la debolezza del presidente americano, la cui autorità, posta in discussione in patria, è stata sostenuta e giustificata dal capo di Stato straniero al centro di quella discussione. Si tratta, probabilmente, del peggiore errore tattico commesso finora da Trump: suscitare all’inverso il patriottismo americano, ossia contro sé stesso invece che a proprio sostegno, colpendo il prestigio dell’autorità del comandante in capo della nazione e, quindi, l’immagine stessa della potenza americana.

La politica del prestigio è intangibile e sottile ma assai importante. Utilizza i modi sofisticati della diplomazia, non quelli banali del commercio. Anche per questo è stata raramente riconosciuta per ciò che veramente è, vale a dire una delle manifestazioni fondamentali della lotta per la potenza nelle relazioni internazionali. Se è così, allora l’esito pubblico principale del vertice di Helsinki consegna alla Russia un netto successo diplomatico perché essa ne è stata la sua migliore interprete.

Lo scopo della politica del prestigio è impressionare gli altri Stati attraverso la potenza di cui si dispone o che si vuole che gli altri stati credano si possegga. «Noi siamo le due grandi potenze nucleari», aveva detto Donald Trump ai margini del vertice, concedendo alla Russia un riconoscimento a lungo agognato, ossia un posto di prestigio alla pari degli Stati Uniti che le mancava dai tempi della fine dell’Unione Sovietica. Dopo la conferenza stampa di ieri la Russia ha ottenuto ancora di più, forse molto di più. Vladimir Putin ha platealmente affermato, col consenso del presidente americano, la capacità russa d’influenzare direttamente gli affari interni degli Stati Uniti d’America, lo Stato più potente del pianeta. Ieri ha stabilito apertamente, di fronte al mondo, con le proprie parole, d’esserne un protagonista e d’essere in grado di modificarne gli equilibri non con le spie ma con l’abilità diplomatica. Se lo scopo di medio periodo degli Stati Uniti era quello d’isolare la Russia – a partire dalle perduranti sanzioni imposte – Helsinki lo ha seppellito definitivamente e con esso ha seppellito il prestigio americano.

Crediti immagine: ANSA/AP

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