Le tecnologie informatiche sono nate con l’idea di divulgare informazioni. Molti analisti hanno visto in questa esplosione di dati, informazioni, conoscenze un mezzo straordinario per diffondere consapevolezza e, quindi, libertà in ogni angolo del mondo. L’esempio delle Primavere arabe, nate grazie al coordinamento tra attivisti on-line, è solo uno dei tanti che si possono citare.

Questa idea della rete e delle tecnologie informatiche quali spazi di libertà, dal sapore a volte anarchico, è tuttavia sempre più messa in discussione dall’utilizzo che ne fanno i governi di molti Paesi non democratici. Grazie a forti investimenti nel comparto tecnologico e digitale, questi sembrano sempre più padroni del mezzo informatico e lo declinano sulla base della propria agenda politica e culturale. L’esempio al momento più noto ed eclatante è l’ormai imminente lancio in Cina di un punteggio “social” calcolato dal governo che garantirà particolari privilegi o, al contrario, infliggerà restrizioni ai propri cittadini fino a limitare la loro capacità di viaggiare e spostarsi.

Un altro Paese che sta dimostrando quanto sia possibile imbrigliare il potenziale delle tecnologie informatiche per metterlo al servizio dei propri obiettivi è l’Arabia Saudita. Asia News denuncia che da anni Riyad tiene un database che riguarda le sue cittadine con lo scopo di proteggere uno dei suoi istituti sociali più oscurantisti, quello del “guardiano”, che vede sulla base di una zelante interpretazione degli hadith ogni donna costretta ad affidare la sua intera esistenza al familiare maschio a lei più vicino (il marito, il padre, a volte persino il figlio più grande). Questo costume sociale, sostenuto dal governo saudita, di fatto impedisce a ogni donna saudita di avere il controllo sulla propria vita, dovendo dare conto al “guardiano” persino degli spostamenti più banali.

Il database traccia ogni spostamento consentendo ai guardiani di monitorarlo e prevenire eventuali fughe dalla famiglia. Un fenomeno in costante crescita, che vede circa mille donne saudite, soprattutto tra le classi elevate, espatriare per chiedere asilo. Il recente caso di Rahaf Mohammed al-Qunun, la giovane saudita fuggita in Thailandia per paura di venire uccisa dalla famiglia a causa del suo rifiuto della fede islamica e oggi accolta in Canada dopo un lungo braccio di ferro internazionale, sembra aver convinto Riyad a potenziare il database e aggiornarlo secondo le nuove esigenze di mobilità dettate dalle tecnologie informatiche.

Oggi, infatti, eventuali “anomalie” nei log (tracce delle attività sui dati che testimoniano accessi e azioni svolte da un utente su un programma o un portale) da parte dei programmi utilizzati da una donna saudita vengono notificati via sms al suo guardiano. Ciò è reso possibile innanzitutto dal tracciamento operato dalle autorità saudite su Absher, app veicolata dal governo di Riyad che consente ai cittadini sauditi di effettuare pratiche burocratiche di varia natura. Alcune delle funzioni di Absher sono fondamentali nel garantire quel poco di autonomia che ha adisposizione una donna, a partire dal rinnovo della patente di guida, rendendo il controllo operato dal governo molto difficile da evitare.

Absher è scaricabile gratuitamente sia da dispositivi Android, sia da dispostivi iOS. Tra le voci di menù dell’app, è possibile riportare le persone a proprio “carico”. Da questo punto ciascun “guardiano” saudita può indicare e aggiornare costantemente lo status delle donne sotto la sua protezione. L’utente può indicare quali soggetti sotto la sua tutela siano al momento nel Paese o all’estero, inserire gli estremi dei loro documenti, a cominciare dal passaporto, e riportare per quale periodo è previsto che viaggino all’estero. In altre parole, è l’utente che fornisce l’autorizzazione via app agli spostamenti delle donne sotto la sua tutela. Sono tutte informazioni che garantiscono alle autorità di Riyad una formidabile capacità di tenere perennemente aggiornato il proprio database. In cambio, gli uomini possono contare su aggiornamenti puntuali qualora qualcosa, o qualcuna, andasse al di là del loro controllo. Un sistema che ha già garantito a diversi padri, mariti e congiunti di riacciuffare donne che hanno provato a sfuggire alla loro tutela.

La fuga di notizie che al momento sta interessando il database governativo di controllo sulle donne e sulle funzionalità di Absher, ha portato a numerose proteste in tutto il mondo e pressioni sui grandi operatori dell’informatica a cominciare da Apple e Google, che ospitano Absher sui loro shop di app. Tim Cook, CEO di Apple, ha promesso che farà effettuare indagini sulle caratteristiche della controversa applicazione, intento che sembra voler perseguire anche Google.

Se queste indagini portassero a un nulla di fatto, l’Arabia Saudita registrerebbe un ulteriore e clamoroso successo contro una grande compagnia internazionale o, per esser più corretti, contro le pressioni esercitate da diversi operatori internazionali per via delle ripetute violazioni dei diritti umani da parte di Riyad. Recentemente, infatti, Netflix ha censurato la puntata di Patriot Act, stand-up comedy condotta dal comico americano Hasan Minhaj, dedicata al principe ereditario del regno Mohammad bin Salman e al suo coinvolgimento nel caso Khashoggi, rimuovendola dalla sua programmazione in Arabia  Saudita.

Non sarebbe la prima volta che l’ascendente economico esercitato da un’autocrazia si rivela tale da piegare operatori privati che fanno della libertà d’impresa e d’espressione la loro ragion d’essere, almeno sulla carta. Un aspetto inquietante, che proprio Minhaj ha raccontato in uno dei suoi show, è la fame saudita di nuove tecnologie, soprattutto americane. Negli ultimi tempi molti media statunitensi si stanno chiedendo quanto Riyad sia impegnata a finanziare progetti di start**-up tecnologiche nella Silicon Valley e non solo. Quel che si sa, allo stato attuale, è che il volume di denaro che i sauditi stanno veicolando sul know-how americano è nell’ordine di miliardi di dollari. Una crudele ironia vuole che uno dei progetti maggiormente finanziati dal Fondo pubblico saudita sia Uber, la nota soluzione di drive sharing, quasi a voler cercare soluzioni “smart” per limitare il più possibile la recente decisione di concedere il diritto alla guida alle donne. In ogni caso, nonostante numerose pressioni subite, molti nuovi colossi del mondo delle start-**up americane, tra cui Slack, Lyft, WeWork, sembrano non potersi permettere di disconoscere coloro che negli anni precedenti sono stati i loro principali sostenitori.

Gli investimenti sauditi sull’high tech americano non sono dettati solo da ragioni pratiche, ma sono parte del progetto di Riyad di sfruttare il proprio potere economico per diventare un Paese influente anche nel soft power. La visita alla Silicon Valley di Mohammad bin Salman è stata una delle più importanti operazioni volte a rilanciare l’immagine della monarchia saudita all’estero, prima del contraccolpo ricevuto da Riyad a seguito dell’omicidio di Khashoggi.

Le mire tecnologiche saudite tuttavia vanno ben oltre i soli Stati Uniti. Tra i vari colossi del mondo tecnologico chiamati a fornire spiegazioni sui loro legami con i sauditi c’è anche la giapponese SoftBank. L’azienda è una delle principali compagnie di comunicazione del mondo, e recentemente ha potuto consolidarsi grazie a un fondo di nome “Vision” del valore di 100 miliardi di dollari (da rinnovare, stando ai progetti iniziali, ogni due o tre anni), il più grande fondo d’investimento legato a progetti di start**-**up tecnologiche. Quasi la metà di quei soldi proviene dal Fondo sovrano saudita a seguito di un incontro, nel 2016, tra il CEO della compagnia Masayoshi Son e il principe Mohammad bin Salman. Proprio lui ha dichiarato, in tempi recenti, che «senza il Fondo sovrano saudita non potrebbe esistere il Fondo Vision della Soft Bank».

Per i sauditi così come per altre autocrazie del mondo esistono parecchie opportunità di sfruttare le possibilità offerte dal libero mercato globale di reperire e incrementare tecnologie utili poi a rafforzare i propri strumenti d’oppressione all’interno. A tal riguardo, sono ormai due anni che Riyad organizza un forum annuale per gli investimenti internazionali, la Future Investment Initiative, definito spesso la “Davos nel deserto”. L’evento è organizzato dal Fondo sovrano saudita e rappresenta al contempo una cartina di tornasole per esprimere l’ascendente saudita a livello economico e tecnologico (la prima edizione è stata l’occasione per annunciare la metropoli futuristica di NEOM), e un mezzo per invitare aziende, start**-**up e progetti, tutti attirati dalle enormi disponibilità economiche a disposizione del governo saudita. Tra gli argomenti principali di discussione (e oggetto degli investimenti), della Future Investment Iniziative, ci sono temi quali l’intelligenza artificiale e l’uso dei Big Data. L’ultima edizione ha avuto diverse defezioni per via dell’omicidio di Khashoggi e il conseguente boicottaggio da parte soprattutto di attori occidentali, nonché il clamoroso hackeraggio del sito dedicato dell’evento; tuttavia, il governo saudita e le sue compagne di riferimento, come l’ARAMCO, hanno portato a casa accordi per decine di miliardi di dollari.

Gli investimenti esteri da parte del governo saudita in ambito tecnologico tuttavia non devono far dimenticare che il regno è, al tempo stesso, impegnato a sviluppare una forte e competitiva industria ICT locale. Nel 2016 il settore informatico, da solo, ha contribuito all’economia saudita per circa il 6% sul PIL con una spesa complessiva calcolata in più di 30 miliardi di dollari all’anno e che a soli due anni di distanza sembra aver già raggiunto i 40 miliardi annui. Un peso destinato ad aumentare drasticamente nei prossimi anni nell’ottica della Saudi Vision 2030 e del passaggio ad un’economia postpetrolifera. Al netto del potenziale economico, una robusta industria ICT consentirebbe a Riyad di non dover rispondere ad operatori internazionali e ai loro mal di pancia in materia di violazione dei diritti umani nello sviluppo di soluzioni informatiche utili a controllare i propri cittadini e, soprattutto, le donne.

Il potenziale offerto dalla rivoluzione digitale è tale che, a dispetto delle intenzioni di chi ha lavorato per il World Wide Web, appena diventato trentenne, le reti informatiche possono consentire una stretta sulle vite dei cittadini del tutto inedita.

Immagine: Fedeli nel cortile della moschea di Nabawi a Medina, Arabia Saudita (1 giugno 2013). Crediti: AHMAD FAIZAL YAHYA / Shutterstock.com

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