Quello che si avvia a vivere sarà per la Repubblica Democratica del Congo un periodo cruciale. Le tanto attese elezioni, più volte strategicamente rimandate dal presidente Joseph Kabila, a meno di clamorosi colpi di scena, si celebreranno il 23 dicembre. Stretto tra conflitti interni mai sopiti, pandemie, emergenze umanitarie e gravi tensioni politiche latenti, questo immenso Paese nel cuore dell’Africa si avvia così verso un autunno che si preannuncia molto caldo.

Si può dire che il Congo viva in una situazione di instabilità permanente dai tempi dall’indipendenza dal Belgio, raggiunta il 30 giugno 1960. Il noto padre della patria Patrice Lumumba non ebbe neanche il tempo di vedere compiuti l’esecutivo e le istituzioni democratiche che venne trucidato, il 17 gennaio 1961, dalle truppe fedeli a Moïse Tshombe, leader del Katanga, regione che nel frattempo aveva dichiarato la propria secessione dal neonato Stato con il sostegno del Belgio, non rassegnatosi del tutto a rinunciare ai suoi interessi minerari. Da quel momento in poi, se si eccettuano alcuni periodi di relativa pace, caratterizzati comunque da enormi tensioni e gravi violazioni dei diritti umani e civili (specie nei trentadue anni di potere di Mobutu Sese Seko), il Congo è sprofondato di continuo in veri e propri conflitti che ne hanno fatto uno dei Paesi più problematici del pianeta.

Attualmente quella del Congo è annoverata tra le quattro peggiori crisi in atto nel mondo accanto a Siria, Yemen e Sud Sudan. Dei suoi 83 milioni di abitanti, circa quattro e mezzo hanno lasciato le proprie case andando a trovare rifugio in altre aree del Paese, mentre sono circa 700.000 coloro che hanno superato i confini spingendosi in Angola, Uganda, Zambia o Tanzania. Dal 2015, il numero di sfollati all’interno del territorio nazionale è raddoppiato mentre in alcune regioni ha registrato cifre elevatissime: solo nel Kasai, ad esempio, una delle aree colpite da un interminabile conflitto, si calcola che dall’aprile del 2017 ogni giorno oltre 8.000 persone abbiano lasciato le proprie dimore.

L’instabilità e la guerra producono, come sempre, drammatici effetti collaterali. Tra questi vi sono senz’altro le ricorrenti carestie dovute all’impossibilità per gli agricoltori di occuparsi di terre e bestiame a causa del conflitto, che hanno portato nel 2017 circa 8 milioni di persone allo stato di ‘insicurezza alimentare’ (un aumento del 30% rispetto al 2016), mentre la drastica riduzione dell’accesso all’acqua potabile ha favorito, tra i tanti problemi, l’insorgenza di una epidemia di colera e causato la morte di 600 individui.

Per quanto preoccupante, però, la situazione non è tale da far intravedere i segnali del dramma in cui sprofondò il Congo quando, tra il 1998 e il 2007, si scatenò la cosiddetta Guerra mondiale africana, che fece 5,5 milioni di vittime. Ma le decine di migliaia di morti e le sparizioni registrate negli ultimissimi anni non fanno certo presagire nulla di buono.

La fase in cui sta per entrare il Congo, infatti, è probabilmente una delle più difficili della sua breve storia politica. E gran parte delle responsabilità cadono sulla controversa figura del presidente Joseph Kabila.

Salito al potere nel gennaio del 2001 pochi giorni dopo l’uccisione del padre Laurent-Désiré (succeduto a Mobutu dopo averlo costretto all’esilio nel maggio 1997 e immediatamente autoproclamatosi presidente della ribattezzata Repubblica Democratica del Congo), Joseph traghettò il Paese verso le elezioni del 2006, che vinse nettamente. Nel successivo appuntamento elettorale (novembre 2011), svoltosi in un clima di grande tensione e screditato da accuse di irregolarità e brogli in buona parte attestati dagli osservatori internazionali, Kabila fu riconfermato presidente. Ma la crisi profonda innescata dalle palesi violazioni perpetrate dal potere ha creato lacerazioni drammatiche mai più suturatesi, che hanno condotto il Paese fino al 2016, anno in cui, secondo la disposizione costituzionale, Kabila, terminato il suo secondo mandato, avrebbe dovuto farsi da parte.

È in questa fase che, adducendo ragioni di sicurezza, aggrappandosi alla crisi economica, o dichiarando di doversi occupare della repressione di rivolte interne (in gran parte dovute proprio al suo rifiuto ad andarsene), ha coniato il suo mantra “Meglio nessun voto che il caos” e cominciato una serie di odiose strategie volte solo a rimandare le urne e perpetuare il suo mandato. Per calmare gli animi di un intero popolo che vedeva allontanarsi la data delle elezioni e sempre più plausibile una forzatura della Costituzione per aprire la strada a un terzo mandato, è scesa in campo la Chiesa cattolica. La Conferenza episcopale (CENCO, Conférence Episcopale Nationale du Congo), forte anche del sostegno papale che, sul Congo, ha acceso più di un riflettore, compreso che non si sarebbe arrivati al voto, ha promosso nell’autunno del 2016 un tavolo negoziale che ha condotto all’Accordo di San Silvestro: l’estensione per un solo anno del mandato del presidente al solo scopo di fissare una data certa e condurre il Paese a elezioni inclusive e pacifiche.

Le firme dell’opposizione e di Kabila avevano fatto pensare a un successo totale. Per tutto il 2017, però, il presidente ha temporeggiato, fatto trapelare la volontà di volersi ricandidare, lasciato intendere che non si sarebbe fatto da parte. E quando, verso la fine dello scorso anno, è divenuto ormai chiaro a tutti che di elezioni non ci sarebbe stata traccia, il Paese è insorto.

Imponenti manifestazioni sono state organizzate in tutto il Congo (in gran parte innescate da laici cattolici sostenuti dai vescovi e dal clero) sistematicamente represse nel sangue. Tra incidenti gravissimi, massacri perpetrati nel Nord Kivu e in altre aree, l’ennesima esplosione di Ebola (a inizio settembre, quando ancora non si poteva dichiarare il virus debellato, si registravano 88 morti sui 120 casi accertati), si è giunti alla fissazione del 23 dicembre quale data per le elezioni e alla designazione, da parte del presidente in carica, del fido Emmanuel Ramazani Shadary, ex vice primo ministro e ministro dell’Interno (noto per i suoi metodi repressivi nel campo della sicurezza, è soggetto a sanzioni dell’Unione Europea per gravi violazioni dei diritti umani), quale candidato della coalizione targata Kabila.

Ma i tre mesi che separano il Congo dalle elezioni hanno tutti i crismi della turbolenza politica. Le esclusioni decise dalla commissione elettorale dell’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba (arrestato a Bruxelles nel 2008, condannato poi nel 2016 in primo grado a 18 anni dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, è stato riabilitato in appello lo scorso giugno ed è rientrato in Congo, tra folle in delirio, in agosto) e dell’ex primo ministro Adolphe Muzito, unite al fatto che all’influentissimo Moïse Katumbi, ex governatore del Katanga in esilio in Zambia, accusato di complotto contro Kabila, è stato negato l’accesso al Paese, fanno temere a più di un osservatore che il rigore decisivo del campionato elettorale, Joseph Kabila, lo voglia battere a porta vuota.

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