Agli inizi degli anni Sessanta, a parlare di “legge e ordine” non è, come oggi, il presidente degli Stati Uniti. È piuttosto il Sud razzista, il Sud dell’ala razzista e segregazionista del Partito democratico. Da quelle parti vuol dire “tenere i negri al loro posto”. Tenerli dove i meridionali bianchi li hanno costretti intorno all’anno 1900, segregati ed esclusi dalla vita politica (si vede bene in una delle scene finali di Nascita di una nazione, il film capolavoro di Griffith del 1915: gli eroi a cavallo del Ku-Klux Klan fanno il loro eroico lavoro di richiudere gli ex schiavi nei loro quartieri). Tenerli dove fanno sempre più fatica a tenerli, perché i movimenti di protesta e per i diritti civili sono nati insieme con la segregazione stessa, e stanno diventando più aggressivi. Law and order è dunque uno slogan che evoca un sogno di stabilità in un contesto instabile, un desiderio che rimuova la paura, con effetti di disordine e illegalità spesso letali (i linciaggi, per dire).

Non che l’ordine e la legge non siano cose buone in sé, magari prese una per volta. Il governo della legge, la “rule of law” è lo Stato di diritto. E chi non vuol vivere in una società ordinata? È la loro accoppiata a diventare uno strumento contundente, quando è agitata nella vita pubblica per dire, da parte di chi ha il potere per dirlo, in genere in nome di una reale o inventata maggioranza: la nostra legge e il nostro ordine, contro voi minoranze rompiscatole. La si trova dunque usata, oltre che nel Sud segregato, in altri luoghi e periodi di vita inquieta, di conflitti politici affrontati come problemi di ordine pubblico, di disordine inteso come somma di disobbedienza sociale e criminalità comune. Subito dopo la Rivoluzione, per esempio, o subito dopo la Guerra civile (durante una guerra, o durante una rivoluzione, non è il caso). O a fine Ottocento, con la questione sociale e le grandi migrazioni. O nell’anno della “paura rossa”, il 1919. O anche negli anni Trenta...

Agli inizi degli anni Sessanta, law and order emigra dal Sud al Nord, e dai democratici meridionali entra nel linguaggio nazionale dei repubblicani. Perché diventa nazionale la questione razziale, con le rivolte nelle metropoli settentrionali, violenti race riots. E perché essa si intreccia con i rallies antiguerra, con gli scioperi studenteschi, con lo scompiglio culturale dei nuovi stili di vita giovanili. Il Paese sta per esplodere? In anticipo sulle esplosioni peggiori, l’appello a legge-e-ordine è adottato dal candidato presidenziale repubblicano del 1964, Barry Goldwater. Con più fortuna lo usa Ronald Reagan per diventare governatore della California, uno Stato che è un hotbed di ogni disordine sognato o aborrito. E infine accompagna alla Casa bianca Richard Nixon nel 1968: un potente messaggio conservatore e razzializzato contro le piazze dei radicals (neri e bianchi), le riforme dei liberals (a favore dei neri), i criminali di strada (neri nell’immaginazione di molti) incoraggiati o tollerati da entrambi.

La vittoria di Nixon sembra mostrare la magica potenza di law and order nel conquistare il consenso di quella che il nuovo presidente chiama «maggioranza silenziosa» (un’altra cosa ovviamente buona in sé, il senso ultimo della democrazia, in cui le decisioni si prendono contandosi e non facendo la voce grossa; ma di nuovo, in questi contesti, è un altro slogan usato come arma per chiamare a raccolta l’opinione bianca contro le minoranze di colore). Ma è davvero così? È indubbio che preoccupazioni e paure emergano dagli opinion polls del periodo. Nel maggio 1968 una commissione creata dal presidente Lyndon Johnson conclude che le cause delle rivolte urbane sono sociali (viviamo in «due società, una bianca e una nera – separate e ineguali»), e quindi sociali devono essere i rimedi; ma la maggioranza degli americani è in disaccordo. In agosto un sondaggio della Louis Harris dice che l’81% degli intervistati ritiene che «legge e ordine siano andati in frantumi nel paese». E dunque?

E dunque sì, ci sono elementi che suggeriscono che simili preoccupazioni e paure abbiano convinto un numero sufficiente di cittadini a far pendere la bilancia per Nixon. Dimostrarlo è arduo, tuttavia ci sono ricerche che aiutano a farsi un’idea. Esse mostrano come, nel periodo 1960-72, l’attivismo nero non-violento, anche quando subisce la violenza delle istituzioni o dei razzisti, crei una narrazione positiva nella maggioranza bianca e influenzi favorevolmente l’opinione e l’agenda politica progressista. Mentre le tattiche violente, comprese le risposte violente alla violenza, compresi i casi di giusta e legittima autodifesa, e tanto più i riots, generano ostilità, rafforzano i persistenti pregiudizi razziali altrui e influenzano l’agenda in senso repressivo. Spostano l’attenzione dal tema “diritti civili” (prevalente negli anni 1964-65) al tema “controllo sociale” (in crescita e poi prevalente negli anni 1968-72). E nel 1968 spostano una decisiva quota di elettori verso i repubblicani.

Ma se è andata così mezzo secolo fa, deve andare così sempre? È destino che vada così anche oggi? Nel mezzo delle estese proteste di questi giorni, alcune con appendici o frange violente, il LAW & ORDER! twittato tutto maiuscolo da Donald Trump può avere lo stesso effetto? Non è detto, non c’è alcuna legge storica che lo prescriva, e comunque ci sono ovvie differenze fra le due situazioni.

Le differenze più evidenti? Intanto il Nixon del 1968 è lo sfidante, può imputare ad altri la responsabilità del caos; Trump è invece il responsabile-in-capo anche se in perpetua pubblica negazione delle sue responsabilità (ma senza dimenticare che Nixon vince anche da incumbent, e ben più alla grande, nel 1972). In secondo luogo, benché le proteste nascano lungo la “linea del colore”, e derivino le parole d’ordine da Black Lives Matter, esse sono più estese e partecipate e composite per razza, etnia, religione, meno razzialmente polarizzate di quanto lo siano quelle degli anni Sessanta; sembrano ottenere riconoscimenti in ambienti impensabili, persino rompere vecchie fedeltà partisan (qui conta la, come dire, personalità di Trump). Infine, le manifestazioni sono meno minacciose dei vecchi race riots, infinitamente meno letali; e sembra che stiano evolvendo con rapidità verso espressioni politiche di massa, radicali e pacifiche, che convogliano l’attenzione sui problemi strutturali piuttosto che sulle vetrine spaccate.

Ho appena scritto “infine” – in effetti da qui l’analisi dovrebbe ricominciare. Ma è un’altra storia.

Immagine: Scontro tra afroamericani e polizia a Fulton Street e Nostrand Avenue durante la rivolta di Bedford-Stuyvesant, New York, Stati Uniti (21 luglio 1964). Crediti: Stanley Wolfson. Fonte, https://www.loc.gov/pictures/item/2015650855/ [Public domain], attraverso commons.wikimedia.org

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Stati Uniti#razzista#anni Sessanta