Non abbiamo prove a sufficienza per capire se dietro il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 in Turchia ci fosse la “longa manus”  di Fethullah Gülen - come sostiene il governo di Ankara - oppure se si sia trattato di una rivoluzione pianificata da Erdogan per rinsaldare il suo potere (tesi sostenuta da molti osservatori internazionali all’indomani degli avvenimenti). Eppure gli sviluppi politici e geopolitici hanno offerto ai commentatori di tutto il mondo una certezza: la politica estera del Paese è cambiata di 180 gradi.

Nel 2003 - appena insediatosi l’AKP al governo - l’approccio di Ankara nello scacchiere globale fu tracciato da una pubblicazione dei 2001 intitolata Profondità strategica. La posizione internazionale della Turchia, scritta da Ahmet Davutoglu, successivamente divenuto ministro degli Esteri e, dopo ancora, primo ministro. L’idea di fondo consisteva in una rivisitazione geopolitica del Paese per promuovere un ruolo sempre più attivo su diversi fronti. Secondo Davutoglu occorreva accrescere a livello globale l’influenza del Paese partendo da un rafforzamento regionale. Fin dall’inizio, dunque, la nuova Turchia decise di attenuare le tensioni con i Paesi vicini (Iran, Russia, Siria), facendo prevalere fattori economici e culturali al posto di antiche rivalità. Cominciò una politica articolata di soft power che ha trasformato col passare degli anni un approccio unipolare in uno multipolare. La Turchia, membro della Nato e alleato fedele degli Stati Uniti d’America, si proponeva di essere non solo il prolungamento geostrategico del Pentagono e della Casa Bianca, ma un protagonista dell’area, pur nei limiti della dipendenza militare.

Tuttavia la collocazione del governo di Ankara come “ponte” tra Est e Ovest è durata soltanto per pochi anni. A partire dal 2011, anno cruciale per il Vicino e Medio Oriente, Erdogan ha voluto rivestire un ruolo sproporzionato rispetto alle reali possibilità: “la profondità strategica” di Davutoglu si è così trasformata in una complessa strategia neo-ottomana. Ma l’ambizione di diventare il Paese guida dell’intero mondo musulmano si è scontrata con la realtà. Le primavere arabe, seguite dalla disgregazione degli equilibri della regione, non hanno fatto altro che rinvigorire lo scontro secolare tra sciiti e sunniti. In particolare in Siria, epicentro della crisi regionale, dove Bashar Assad, sostenuto da Russia e Iran, sta sfuggendo a un regime change supportato da Arabia Saudita, Turchia e Stati Uniti.

Oggi la Turchia - come sostiene anche Alberto Negri, editorialista de Il Sole 24 Ore - non sembra più un ponte “ma un pendolo che oscilla tra Oriente e Occidente perché deve salvarsi da una disfatta”. Il governo di Ankara, dopo il colpo di Stato mancato, ha messo indietro le lancette del tempo ed è tornato a una politica estera vicina a quella antecedente al 2011: con l’incontro tra Erdogan e Putin a San Pietroburgo del 9 agosto 2016 è iniziato il riavvicinamento con i grandi imperi (russo e persiano). Inoltre, dopo alcune accuse reciproche, sembra che i rapporti con gli Stati Uniti – dopo le tensioni create della richiesta di estradizione di Gülen – si stiano parzialmente ricucendo.

Se il riavvicinamento tra Mosca e Ankara appare come un’alleanza di convenienza più che una partnership strategica, quello con Washington serve a permettere a Erdogan di ruggire per l’ultima volta sul palcoscenico della diplomazia internazionale. Dopo molte incertezze e atteggiamenti ambigui, i jet della Coalizione internazionale a guida americana hanno partecipato, insieme a forze armate turche, ad un’offensiva anti Isis nel nord della Siria. Grazie a questa operazione congiunta il governo di Ankara ha ottenuto alcune importanti concessioni politiche, tra cui soprattutto il ritiro delle milizie curde dell’Ypg a Est dell’Eufrate. Les jeux sont faits? Per adesso, la Turchia sembra voler abbandonare definitivamente il sogno di far cadere Assad accontentandosi di impedire ai curdi di costituire una regione indipendente ai confini del Kurdistan turco.

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