La forma più diffusa di partecipazione politica nelle democrazie contemporanee è votare. Ciononostante da molti anni nella maggior parte dei Paesi occidentali il tasso di astensionismo registra un aumento costante.

In Italia la partecipazione elettorale è stata tra le più elevate dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta. Successivamente anche nel nostro Paese gli elettori hanno iniziato a mostrare segnali di diffusa disaffezione e l’astensionismo è diventato un dato costante e in potenziale aumento a ogni tornata elettorale.

Le ricerche effettuate in questi trent’anni hanno messo in luce che la partecipazione elettorale ha andamenti diversi rispetto al tipo di elezione considerato. In altre parole, per le elezioni politiche la tenuta è stata maggiore rispetto alle elezioni europee e alle elezioni regionali. Infatti, in media nelle sette elezioni politiche tenutesi dal 1992 al 2013 la partecipazione (voto alla Camera) è stata del 82,4%. Ciononostante, se l’astensionismo nel 1992 era pari al 12,7%, nelle elezioni del 2013 è praticamente raddoppiato, attestandosi al 24,8%. La partecipazione alle elezioni europee è stata invece fin dagli inizi più modesta e, considerando le cinque tornate elettorali a partire dal 1994 fino alle più recenti elezioni del 2014, è stata in media del 68,7%. L’astensionismo alle europee è aumentato di più di 15 punti percentuali dal 1994 (25,4%) al 2014 (41,3%). Se guardiamo alle elezioni regionali, invece, si evidenzia come queste fino agli anni Duemila abbiano registrato un trend similare alle elezioni politiche. Infatti, nel 1970, durante le prime elezioni regionali, parteciparono al voto il 92,5% degli aventi diritto, mentre nelle regionali del 1995 furono l’81,3%. Dalle elezioni regionali del 2000 però la partecipazione elettorale calò di ben 8 punti percentuali attestandosi al 73% e successivamente l’emorragia di voti proseguì, tanto che si accentuò il differenziale con le elezioni politiche e progressivamente il trend partecipativo delle elezioni regionali divenne simile e, negli ultimi anni persino inferiore, a quello delle europee. Infatti, nel 2010 l’astensionismo è stato del 36,4% e nel 2015 del 46,1%. Un altro dato interessante è quello che ha visto un netto cambiamento nel comportamento di voto degli elettori. Infatti se al Sud gli elettori tendevano a partecipare di meno rispetto al Centro-Nord del Paese, dagli anni Novanta in poi le differenze tra regioni si sono progressivamente uniformate e i tassi partecipativi del Nord, del Centro e del Sud si sono livellati.

Per spiegare queste differenziazioni e questi cambiamenti la scienza politica ha preso in considerazione due macro-categorie di fenomeni: da un lato le ragioni motivazionali o volontarie che fanno riferimento alle motivazioni più o meno razionali e alla volontà dei cittadini di recarsi alle urne. Come hanno messo in luce Feltrin e Fabrizio*, queste componenti dell’astensionismo sono quelle maggiormente indagate e di solito le spiegazioni chiamano in causa la sfiducia verso i partiti politici in generale, il venir meno dell’idea che il voto sia un atto sociale doveroso e l’attenuarsi del civismo o del capitale sociale anche in seguito alla secolarizzazione delle società contemporanee. Dall’altro le ragioni strutturali dell’astensionismo hanno a che fare con una serie di fenomeni esterni alle preferenze individuali spesso non collegati tra loro. Tra queste, alcune riguardano delle trasformazioni sociali ed economiche come l’invecchiamento della popolazione e la maggior mobilità per ragioni di studio o lavoro; altre riguardano il funzionamento e la qualità della competizione elettorale e quindi contano: le regole elettorali,  la modalità di iscrizione ai registri elettorali, il ricorso o meno a elezioni simultanee, il numero di giorni a disposizione per votare, l’orario di apertura dei seggi, la frequenza degli appuntamenti elettorali  e la percezione della rilevanza del voto.

In particolare, guardando al caso italiano, nell’aumento dell’astensionismo hanno pesato sia ragioni del primo tipo che del secondo. Dagli anni Novanta in poi si è assistito alla destrutturazione del sistema partitico, alla scomparsa o alla trasformazione dei principali partiti tradizionali che avevano dominato la scena politica per oltre 40 anni. Se fin dagli anni Ottanta quasi tutte le democrazie occidentali hanno sperimento un significativo calo della fiducia nei partiti, in Italia la sfiducia ha raggiunto livelli eclatanti. In effetti, i dati dell’Eurobarometro rilevano che nel 2014 la media europea (EU28) di fiducia nei partiti era del 17%, mentre quella degli italiani si assestava ad appena il 6%. Questo probabilmente è dovuto al fatto che i partiti hanno smesso di fungere da strumento di collegamento e mediazione tra società e politica e si sono trasformati a poco a poco in apparati autonomi di potere che non sono più al servizio dei cittadini ma che al massimo si servono dei cittadini. Di conseguenza, rispetto al passato la decisione di andare a votare o meno si basa sempre di più su fattori individuali piuttosto che macro-sociali come la classe, il territorio e la religione (Bellucci - Segatti**). In effetti, dagli anni Novanta anche tra gli elettori italiani sono aumentati quei comportamenti di voto che preludono all’astensione come, ad esempio, una maggiore disponibilità a cambiare voto, spesso per partiti o movimenti populisti, e il maggior utilizzo del voto strategico, ossia la scelta di votare il partito che ha più chance di vittoria rispetto al partito che si preferirebbe davvero. Quest’ultimo comportamento sembrerebbe correlato anche al cambiamento che ha interessato il sistema elettorale verso logiche (quasi) maggioritarie o con notevoli meccanismi di disproporzionalità.

Come se ciò non bastasse, in Italia negli ultimi anni anche alcuni fattori strutturali sembrano essere diventati particolarmente importanti nella spiegazione dell’astensione, si pensi all’alta percentuale di anziani sul totale della popolazione o all’aumento degli studenti e dei lavoratori fuori sede. In questi casi la decisione di astenersi potrebbe derivare dal fatto di non riuscire fisicamente a recarsi alle urne. Un altro aspetto da tenere in considerazione riguarda la cadenza degli appuntamenti elettorali, quando sono molti e ravvicinati, tendono a stancare l’elettore medio che verosimilmente potrebbe disertare le urne, in Italia è quello che è accaduto soprattutto in relazione all’utilizzo dello strumento referendario, in particolare dal 1995 al 2005. Al contrario, la presenza di elezioni concomitanti sembrerebbe far aumentare la partecipazione, quindi i cosiddetti election days farebbero bene sia al bilancio dello Stato che alla partecipazione democratica.

Un altro elemento interessante è la differenza del tasso di partecipazione rispetto al tipo di elezione, risultato che sembra essere particolarmente connesso alla rilevanza percepita del voto. In Italia come altrove, le elezioni europee sembrano essere quelle dove la percezione della capacità degli elettori di incidere con il loro voto sulle politiche sia minore e quindi vengono più facilmente disertate, tanto che in letteratura sono definite come “elezioni di secondo ordine”. Allo stesso modo, anche le elezioni regionali sono percepite come poco utili, nonostante le riforme attuate nel senso del decentramento e della maggiore autonomia regionale a partire dalla fine degli anni Novanta.

In conclusione, il progressivo declino dell’identificazione partitica porta i cittadini a saltare sempre più spesso il momento elettorale pur non sempre e non con la stessa intensità nei diversi tipi di elezione. Gli italiani sono passati dal voto di appartenenza che contraddistingueva soprattutto le subculture politiche rosse e bianche della Prima Repubblica, al voto come abitudine verso gli eredi di quelle tradizioni per scivolare sempre più spesso verso l’apatia.

Nonostante alcuni autori affermino che tutto sommato l’astensionismo non sia una patologia e non nuoccia più di tanto alla democrazia (stealth democracy***), in realtà la mancanza di partecipazione elettorale finisce per creare una distorsione nei processi di comunicazione delle preferenze dei cittadini, per cui i gruppi più attivi, che di solito sono anche i più potenti e organizzati, hanno maggior possibilità di proteggere i propri interessi. Questo non solo produce una diminuzione della capacità dei governanti di rispondere alle esigenze della maggior parte dei cittadini, ma crea condizioni favorevoli per quella commistione tra politica e affari di cui purtroppo il nostro Paese non riesce a liberarsi del tutto.

*Paolo Feltrin - Davide Fabrizio, Capire i risultati elettorali, Roma, Carocci, 2011

**Paolo Bellucci - Paolo Segatti, Votare in Italia 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, Il Mulino, 2010

***John R. Hibbing - Elizabeth Theiss-Morse, Stealth Democracy. Americans' Beliefs About How Government Should Work, Cambridge, Cambridge University Press, 2002

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