La diffusione globale del virus, dagli Stati Uniti duramente colpiti al Giappone finora solo lambito pronto a dichiarare lo stato di emergenza, all’India, al ritorno in Cina con l’attivazione di nuove misure restrittive, ai diversi Paesi europei, con le conseguenti misure di distanziamento sociale e in molti casi di lockdown di una parte significativa delle attività economiche, sta portando la maggior parte degli analisti a condividere la previsione di essere di fronte alla più repentina e più grande contrazione del PIL dalla Seconda guerra mondiale. L’ordine di grandezza della crisi economica dipenderà dalla durata dell’epidemia, che al momento risulta incerta, o dalla capacità di convivere col virus, individuando tutti quegli strumenti sanitari e sociali che ne evitino le conseguenze estreme oggi sotto gli occhi di tutti, almeno fino a quando non ci sarà un vaccino o ci saremo, a caro prezzo di vite umane, immunizzati, sempre che sia possibile. Le stime, ad esempio delle grandi banche e società di consulenza internazionali, variano ampiamente a seconda degli scenari previsti e a seconda dei Paesi, da una lieve contrazione globale per Moody’s caratterizzata da una severa per la zona euro nel secondo trimestre del -7,4% e la Cina in grado di reagire dal -27% del primo trimestre, al crollo indicato da JP Morgan nei primi due trimestri per Stati Uniti e i Paesi dell’euro di ordine compreso tra il 10 e il 25%, alle impressionanti ipotesi per il secondo trimestre di -34 per l’economia americana secondo Goldman Sachs e -43% dell’area euro per Nomura.

Emerge un quadro economico preoccupante, anche rispetto alla crisi del 2008, purtroppo suffragato dalle simulazioni del recente bollettino della Banca dei regolamenti internazionali, che introduce peraltro l’ipotesi di una doppia ondata della pandemia in analogia con quanto successe con l’influenza spagnola del 1918, e  dalle ipotesi drammatiche dell’OECD. In ambito europeo, il Joint Economic Forecast Project Group, i consulenti del governo tedesco in tema di previsioni, individua ad oggi per il 2020 una contrazione complessiva dell’economia tedesca tra il 2,8 e il 5,4% del PIL annuale, mentre le stime per l’Italia oscillano tra un prudenziale -6% di Confindustria a un allarmante -15% di Unicredit su base annua.

Nel complesso si tratta purtroppo di stime che rientrano nell’ambito della ragionevolezza. A spanne, fatto 100 il PIL di un Paese nell’anno precedente e suddividendolo in maniera semplicistica su 12 mensilità, ovvero circa l’8,3% al mese, se si suppone che per un mese le attività economiche e di consumo siano nel complesso chiuse o ridotte in un ordine del 50%, il calo del PIL sull’anno per effetto del lockdown di quel singolo mese sarebbe di circa il 4; ovviamente ceteris paribus, come amano di dire gli economisti, senza cioè supporre eventuali effetti dovuti dalla contrazione di altri Paesi ad esempio o dal possibile rimbalzo successivo alla fine dell’epidemia, che allo stato è difficile individuare. Prolungando il tempo di fermo delle attività e ipotizzando una ripresa lenta e controllata, soprattutto in assenza di vaccino e con il virus ancora in circolazione, si comprende che l’ordine di grandezza della sfida economica che stiamo affrontando potrebbe non essere lontano dalle stime, che ci auguriamo comunque possano essere smentite, grazie agli interventi di politica economica o agli effetti del superamento delle misure di contenimento che almeno in Cina sembrano far ben sperare.

Purtroppo queste stime iniziano ad essere corroborate dai dati effettivi che vengono via via rilevati da istituzioni, centri di ricerca, banche, analisti e studiosi in pieno fermento di analisi, se si pensa che solo nell’ultima settimana negli Stati Uniti 6,6 milioni di persone hanno fatto richiesta di sussidi di disoccupazione, come la settimana precedente, portando a circa 17 milioni i richiedenti dall’inizio del lockdown americano, in linea con l’indicatore settimanale dell’economia reale della Federal Reserve di New York che risulta in picchiata in tutte le sue componenti, come sono in picchiata ad esempio i consumi soprattutto in Italia, ma anche negli altri Paesi europei a causa del blocco di parte delle attività economiche.

I Paesi colpiti dal virus della crisi sembrano star adottando una strategia in due tempi: anzitutto le misure per la sopravvivenza di interi settori produttivi, imprese, lavoratori e cittadini nella fase di piena circolazione del virus che sono già state messe in campo; in seconda battuta strategie, azioni e strumenti per ripartire evitando la catastrofe economica, ancora in fase di elaborazione, se il contenimento del virus sarà stato efficace come sembra essere avvenuto in Cina, con tutti i caveat del caso.

Le risposte economiche dei singoli Paesi, monitorate dal Fondo Monetario internazionale (FMI), in alcuni casi sono di dimensioni assolutamente significative: gli Stati Uniti, ad esempio, dopo un intenso ma rapido confronto nei due rami del Parlamento, hanno messo in campo il Coronavirus Aid, Relief and Economic Security Act (CARES Act), un piano complessivo bipartisan da 2 mila e 200 miliardi di dollari pari a circa l’11% del PIL a stelle e strisce, oltre due volte e mezzo lo stimolo di Obama del 2009, mentre  la Germania ha autorizzato un deficit di 156 miliardi di euro, pari a circa il 4,5% del PIL del 2019, per misure di risposta immediata, oltre ad aver previsto un forte supporto al proprio sistema produttivo attraverso prestiti e garanzie della banca di sviluppo KfW e di un Fondo di stabilizzazione economica appositamente costituito con una dotazione di 600 miliardi, di cui 100 destinabili proprio al rifinanziamento della KfW. Un altro Paese cruciale per l’economia globale, il Giappone, in prima battuta non ha previsto misure economiche significative secondo le stime dell’FMI, ma al diffondersi del virus economico, e vista la latenza e nuova diffusione del Covid-19, stanno predisponendo una manovra straordinaria: il premier giapponese Abe ha annunciato infatti una manovra da 990 miliardi di dollari pari al 20% del proprio prodotto interno lordo. Il grande assente nella riposta alla crisi economica globale sembra invece il Paese epicentro del contagio, la Cina, almeno al momento. Gli interventi fino ad ora adottati appaiono limitati, intorno all’1% del PIL secondo il Fondo monetario internazionale, sebbene oltre a prevedere sussidi specifici per l’industria dell’auto, stia in particolare garantendo liquidità al sistema bancario destinata al supporto alle proprie imprese.

Oltre alle risorse addizionali messe a disposizione per il settore sanitario e per l’emergenza epidemiologica praticamente in ogni Paese del mondo e alle misure di rafforzamento degli ordinari strumenti di welfare, diversi Paesi hanno adottato strumenti straordinari a sostegno del reddito dei cittadini e dei lavoratori. Gli Stati Uniti hanno fatto scalpore con una misura da 250 miliardi di dollari, che ha fatto gridare a sproposito all’helicopter money con accezioni sia positive sia negative, data dal sostegno una tantum, almeno per ora, di 1.200 dollari nelle tasche di ogni cittadino americano dotato social security number con un reddito fino 75 mila dollari: sostegno che si riduce al crescere del reddito fino ad annullarsi ai 99 mila dollari, ma che si incrementa di 500 dollari per ogni figlio minore di 16 anni, e che sarà calcolato ed erogato direttamente ed automaticamente dall’Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate americana.

L’Italia con circa 10 miliardi, oltre a rafforzare cassa integrazione o altri strumenti esistenti, ha previsto per alcune categorie di lavoratori colpite dalla crisi, senza adeguate protezioni sociali, un sostegno di 600 euro per il mese di marzo, che probabilmente sarà elevato a 800 euro per il mese di aprile. La Francia diversamente sosterrà per due mesi il mantenimento dell’occupazione presso le imprese contribuendo con risorse pubbliche, circa 8,5 miliardi di euro, al 70% del salario o al 100% del salario minimo, mentre il Regno Unito ha previsto di garantire l’80% sia del salario dei lavoratori dipendenti, sia dei lavoratori autonomi (limitatamente però a un periodo di tre mesi almeno in questa fase), che non potranno lavorare a causa del Coronavirus, per una spesa potenziale di circa 22 miliardi di euro secondo il Financial Times. Nell’ottica di evitare di togliere ossigeno economico a imprese e cittadini diversi governi si sono poi mossi per posporre tasse, contributi sociali, per individuare nuovi crediti di imposta o agevolazioni fiscali per attutire gli effetti della crisi e per consentire il differimento di pagamento di mutui o prestiti, in particolare in Germania e in Italia, che secondo recenti stime dei ricercatori di Bruegel, che raccoglie a sua volta le misure di politica economica adottate dai governi, sono pari a circa il 14,6 e il 13% del PIL.

Ma è il supporto alle imprese, potremmo forse più correttamente dire la sopravvivenza del sistema produttivo e quindi dell’occupazione, che giustamente costituisce la principale preoccupazione delle autorità di politica economica. La Germania più di altri Paesi si è spinta molto avanti in questa direzione, anche sulla scorta delle forti difficoltà che il sistema produttivo tedesco stava affrontando già nel 2019, arrivando a prevedere, oltre a sovvenzioni federali a imprese di piccolissime dimensioni per circa 50 miliardi di euro, misure dei Länder per 48 miliardi di euro e interventi diretti della banca di sviluppo KfW a sostegno degli investimenti e del capitale circolante di imprese di medio-grandi dimensioni, 100 miliardi di euro per l’acquisizione diretta da parte dello Stato di azioni di grandi società che necessitino di un rafforzamento patrimoniale, consentendone la nazionalizzazione. Del resto il ministro dell’Economia tedesco, Altmaier, è stato chiarissimo affermando che, per sostenere gli interessi economici e industriali tedeschi, «There should be no taboos. Temporary state aid for a limited period, up to and including shareholdings and takeovers, must be possible».

La scelta probabilmente più praticata e di maggior intensità per molti Paesi, comunque, è stata quella di fornire liquidità e garanzie pubbliche per il sistema bancario a supporto delle imprese, con impegni ad esempio in Europa per Francia, Regno Unito e Germania, superiori rispettivamente al 12, 15 e 38% del rispettivo PIL, a cui si aggiunge l’Italia con il decreto dell’8 aprile con 400 miliardi di euro a questo scopo (il 22% del PIL) e alle garanzie già previste in precedenza, pari a circa il 7% del PIL, sempre secondo le stime di Bruegel non ancora aggiornate all’ultima misura nazionale. L’ordine di grandezza di queste garanzie, variamente articolate nei diversi Paesi e a seconda dei destinatari, dà la misura della scommessa, anche in termini di ricadute sulle finanze pubbliche nel caso la scommessa sia persa, che ogni Paese sta facendo sulla sopravvivenza del proprio sistema produttivo.

Liquidità pressoché illimitata sembra quindi essere il cardine su cui ci si muove a livello globale, e non solo in Europa, anche attraverso misure regolamentari. Secondo i calcoli del Financial Times, infatti, dal solo allentamento dei requisiti di capitale per le banche e altre misure analoghe i regolatori finanziari hanno dato la possibilità al sistema creditizio, punto di debolezza della crisi del 2008, di essere leva per affrontare la crisi attuale, potendo mettere in circolazione ulteriori 500 miliardi di dollari per l’economia reale. Le prime istituzioni di politica economica ad agire in questo senso sono state le Banche centrali, che sulla base del “whatever it takes”, il nuovo mantra dei banchieri centrali in tempi interessanti, stanno dimostrando un attivismo straordinario. Per cronologia degli eventi la prima a muovere è stata ovviamente The People’s Bank of China, ma l’intervento straordinario in più fasi è indubbiamente quello della Federal Reserve, che oltre a praticamente azzerare i tassi di interesse di riferimento, ha avviato una serie di misure straordinarie di supporto all’economia di dimensioni enormi, tra cui da ultimo la possibilità di ulteriori 2.300 miliardi di dollari di prestiti per PMI e governi locali: nelle parole del presidente della FED si tratta di poteri straordinari di prestito emergenziale possibili solo con il consenso del ministro del Tesoro. Non sappiamo se siamo di fronte a un superamento, momentaneo o meno, del divorzio istituzionale tra Tesoro e Banca centrale, certo è che questa crisi sta mettendo a dura prova paradigmi consolidati, nel momento in cui la Banca d’Inghilterra per prima procederà come sembra al finanziamento diretto delle attività del governo britannico in risposta al Coronavirus.

La Banca centrale europea (BCE), dopo un esordio non proprio felice del suo nuovo presidente, probabilmente anche grazie alla guida esperta del suo chief economist, ha in prima battuta attivato un nuovo programma di sostegno dell’economia, il cosiddetto PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), attraverso l’acquisto di titoli del settore privato e pubblico per complessivi 750 miliardi di euro, e poi il 7 aprile annunciato un set misure di allentamento dei requisiti per l’accesso ai prestiti «con particolare riguardo alle imprese più piccole, ai lavoratori autonomi e ai privati» nelle parole di Christine Lagarde. Lo sforzo finora messo in campo dalla BCE non è detto che sia sufficiente, e in un prossimo futuro potrebbe anche essere necessario iniziare a pensare rapidamente outside the box come suggerisce Paul De Grauwe, soprattutto se l’acceso confronto in corso nelle istituzioni europee, che nell’ambito dell’Eurogruppo dei ministri economici dei Paesi della zona euro ha raggiunto una soluzione, non maturerà decisioni economiche all’altezza della sfida della sopravvivenza stessa dell’Unione Europea.

Il pacchetto di misure in previsione, che ora passa al vaglio dei leader europei,  include 100 miliardi destinati al progetto SURE della Commissione europea, ovvero la misura di assistenza finanziaria sotto forma di prestiti agevolati ai Paesi membri destinati a «proteggere i lavoratori e i posti di lavoro» secondo la dizione dell’Eurogruppo, 200 miliardi a supporto di piccole e medie imprese attivabili attraverso la creazione da parte della Banca europea per gli investimenti (BEI) di un fondo di garanzia paneuropeo di 25 miliardi di euro e infine la possibilità di accedere a linee di credito ‒ fino al 2% del PIL del richiedente ‒ del contestato Meccanismo europeo di stabilità (MES) sulla base del solo requisito di utilizzare tali risorse per il finanziamento diretto e indiretto di misure sanitarie, di cura e di prevenzione relative al Coronavirus, rispettando le previsioni del Trattato istitutivo del MES, secondo quanto sibillinamente riporta la dichiarazione dell’Eurogruppo. Inoltre, i ministri dell’Eurogruppo si sono impegnati all’elaborazione di Recovery Fund da mettere alla base di un piano per la ripresa, destinato ad affrontare i costi straordinari della crisi che si sta attraversando, la cui entità non è definita nel comunicato finale, ma che dovrebbe attestarsi intorno ai 500 miliardi di euro nelle dichiarazioni di alcuni protagonisti, le cui caratteristiche salienti sembrano da individuare, se il ministro francese Le Maire afferma che «resta da dibattere le condizioni» di finanziamento, un dettaglio non da poco.

È presto per dire se sarà un piano Marshall dell’Europa per l’Europa, e forse dovremmo evitare pure il riferimento al programma di aiuti americano, sviati da una metafora della guerra, che vale per le dimensioni del rischio di catastrofe economica, piuttosto che per le caratteristiche del momento che stiamo vivendo. Non si tratta infatti di mettere in campo una solidarietà di vincitori nei confronti di vinti o derelitti, quanto di dimostrare se le istituzioni europee sono all’altezza del compito che la storia sta ponendo di fronte, anche riformandosi. Anche perché se le istituzioni non sono all’altezza dei propri compiti, semplicemente non servono.

Immagine: Bandiere dell’Unione Europea davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles, Belgio. Crediti: symbiot / Shutterstock.com

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