Un confronto di posizioni e punti di vista, in quello che – per conformazione e ‘vocazione’ – dovrebbe essere il naturale luogo di discussione multilaterale delle grandi questioni globali. Circa una settimana, dal 19 al 25 settembre: in questi giorni, capi di Stato, di governo e leader politici si sono succeduti sul palchetto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, presentando la loro visione dello ‘stato di salute’ del mondo e delle relazioni internazionali, in una realtà contemporanea caratterizzata da sfide globali quanto mai complesse ma anche da una sostanziale incertezza – oltre che non di rado da un disaccordo di fondo – su come affrontarle.

Il dibattito in occasione della settantaduesima sessione dell’Assemblea generale è stato segnato da importanti esordi. Innanzitutto, è stata la prima sessione aperta da segretario generale dell’ONU per il portoghese António Guterres, subentrato a gennaio, dopo la conclusione del secondo mandato, al suo predecessore Ban Ki-moon. Nel discorso di apertura dei lavori, Guterres si è mostrato subito molto diretto, tracciando il quadro di un mondo oramai «a pezzi» che avrebbe invece bisogno di pace. È questa la fotografia di una realtà in cui – ha osservato il segretario generale – si va progressivamente perdendo il senso di appartenenza a una comunità globale, per lasciare ancora più spazio ai particolarismi e agli egoismi; una realtà in cui il discorso politico è fortemente polarizzato, le società si mostrano frammentate e il sentimento di fiducia all’interno degli Stati e nelle relazioni tra gli Stati si assottiglia sempre di più.

Tra le sette grandi minacce e sfide che il mondo è chiamato ad affrontare, la prima citata dal segretario generale è quella del rischio nucleare, oggi assai delicata a fronte del programma portato avanti con determinazione da Pyŏngyang, apparentemente non intimorita dalle sanzioni deliberate nei suoi confronti dal Consiglio di sicurezza ONU. Qui, la condanna nei confronti della Corea del Nord è stata ferma, ma altrettanto chiara è stata la presa di posizione a favore di una soluzione di tipo politico, evitando che le tensioni degenerino in un conflitto potenzialmente disastroso.

Gli altri grandi temi su cui Guterres si è soffermato sono stati la minaccia terroristica, i conflitti irrisolti e le sistematiche violazioni del diritto internazionale umanitario – con un esplicito riferimento alla condizione dei Rohingya in Myanmar –, il cambiamento climatico, le crescenti disuguaglianze, i costi oscuri dell’innovazione – tra cui i rischi di guerra cibernetica e gli effetti sul mercato del lavoro dei progressi dell’intelligenza artificiale – e infine la mobilità delle persone, inquadrata quest’ultima come sfida che il mondo può davvero vincere se si mostrerà unito. In tale ultima dinamica, rientrano ovviamente la gestione dei flussi migratori e la protezione dei rifugiati, rispetto a cui Guterres – alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati prima di diventare segretario generale – ha rimarcato una evidente «crisi di solidarietà».

Il più ‘atteso’ esordiente alla settantaduesima sessione dell’Assemblea generale era però il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha tenuto il suo discorso la mattina del 19 settembre. E nel suo mirino, sono finiti – come ci si poteva aspettare – innanzitutto Pyŏngyang e Teheran. In merito alle tensioni con il regime di Kim Jong-un, l’inquilino della Casa bianca ha voluto sottolineare sia la forza che la pazienza di Washington, affermando che se non ci dovessero essere alternative, gli Stati Uniti sono pronti a distruggere la Corea del Nord. Quanto all’Iran – definito «una dittatura corrotta dietro le false sembianze di una democrazia» – sotto accusa è il noto accordo sul nucleare raggiunto durante l’amministrazione Obama nel luglio del 2015, che secondo Trump sarebbe fonte di imbarazzo per Washington perché a senso unico, esclusivamente a favore di Teheran. Non sono poi mancate le prese di posizione su Cuba – con i nuovi orientamenti già approfonditi su questo magazine (Trump rivede le aperture di Obama verso Cuba) – e sul regime di Nicolás Maduro in Venezuela, nei confronti del quale Trump si è detto pronto a ulteriori azioni, oltre a quelle già intraprese, se la situazione non cambiasse.

Accanto alle singole questioni affrontate, è il più ampio significato generale delle parole del presidente statunitense che merita attenzione: nel Palazzo di vetro sono infatti riecheggiati i toni e le formule già ascoltati durante la vittoriosa campagna elettorale presidenziale, è riemerso quell’America first che rappresenta la stella polare della retorica trumpiana e che si ricollega a un concetto – quello di sovranità – sui cui Trump ha imperniato gran parte del suo discorso. In questo senso – ha giustamente osservato Stewart M. Patrick in un’intervista per il Council on foreign relations – è probabile che il discorso del presidente sia stato in buona parte pensato per l’opinione pubblica americana. Tuttavia – ha osservato sempre Patrick – c’è stato anche altro, ossia l’obiettivo di declinare l’America first e il concetto stesso di sovranità in un’ottica globale, sottolineando come proprio l’idea di sovranità stia alla base delle Nazioni Unite e dello stesso ordine internazionale, che si fonda appunto su Stati autonomi e sovrani dotati di autorità politica su un determinato territorio. Nonostante la proiezione del concetto di sovranità sul campo internazionale, appaiono comunque chiari gli echi isolazionisti, per quanto la politica estera di Trump risulti per molti versi ancora in divenire.

Per approccio e contenuti del messaggio, l’altro atteso esordiente – Emmanuel Macron – è parso su posizioni antitetiche rispetto al presidente degli Stati Uniti. Così, se da una parte Trump non ha fatto alcun riferimento al tema del cambiamento climatico, dall’altra Macron ha sottolineato la necessità di garantire il rispetto degli impegni sanciti dall’accordo di Parigi, ben evidenziando come «il pianeta non negozierà con noi»; ancora, sull’accordo sul nucleare iraniano, l’inquilino dell’Eliseo ha rimarcato come esso sia fondamentale per la conservazione della pace, mentre sulla Corea del Nord ha ribadito come sia indispensabile raggiungere una soluzione politica. La diversa impostazione dei due discorsi è stata messa bene in luce dalla stampa, attraverso un’analisi delle parole chiave usate dai due leader: è così possibile rilevare che la parola ‘pace’ è stata pronunciata 15 volte da Trump, ma a dominare la scena è stata la parola ‘sovranità’, ripetuta ben 21 volte contro le 2 di Macron. Il quale, dal canto suo, ha posto l’accento sull’importanza di un multilateralismo efficace per affrontare le sfide dell’attualità, ripetendo la parola ‘multilateralismo’ per 14 volte.

Per l’Italia, il premier Paolo Gentiloni si è rivolto all’Assemblea generale il 20 settembre, sollecitando la comunità internazionale a superare gli «ostacoli più impervi» e a guardare con fiducia al futuro. Un futuro che per l’Europa – ha fatto notare il premier – si gioca più che mai in Africa, perché è in Africa che vanno affrontate le radici strutturali delle migrazioni. E in questo continente, come nel bacino del Mediterraneo, l’Italia sarà pronta a fare la sua parte per dare risposte concrete sui fronti della sicurezza, della stabilizzazione, dello sviluppo sostenibile e della crescita.

Ancora una volta, come da tradizione durante il dibattito all’Assemblea generale dell’ONU, il mondo si è dunque guardato allo specchio, dando voce alle istanze dei protagonisti che lo animano. Tra l’analisi dei problemi globali e l’elaborazione di strategie condivise per provare a risolverli, continua però a permanere una distanza difficile da colmare.

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