Riflettere sugli sviluppi più recenti in Iran alla luce delle abortite dimissioni dell’ambasciatore Mohammad Javad Zarif, ministro degli Affari esteri della Repubblica islamica, significa valutare quell’episodio come un momento cruciale nell’acuta lotta politica interna per la guida della politica estera. Rifiutate dal presidente Rohani, le dimissioni avanzate da Zarif sono state una meteora che per 48 ore ha attraversato lo spettro della politica iraniana. Cadendo ha aperto un altro, profondo, cratere tra le fazioni governative iraniane che si contendono il potere.

Per descrivere l’impatto della scelta di Zarif possiamo ricorrere al termine ‘opportunismo’. Ciò può significare diverse cose ma, di certo, include l’autoconservazione politica e, più probabilmente, riguarda l’estensione del potere. Zarif, estromesso dall’accoglienza del presidente siriano Bashar al-Assad, cruciale alleato in rara visita a Teheran, ha colto quell’occasione spingendosi sull’orlo del cratere per sfidare gli avversari interni. Egli ha incarnato un tipo fondamentale d’opportunismo politico: consiste nel creare occasioni positive da occasioni apparentemente negative, nel manipolare gli eventi per produrre un momento favorevole e avanzare verso il fine che si ha in mente. Zarif, dimettendosi, aveva in mente di riaffermare, irrobustendola, la propria autorevolezza, trasformandola in maggiore autorità. Ha colto il momento di un attacco portatogli direttamente per manipolare lo scontro interno alla classe politica iraniana, ottenendo una vittoria politica esemplare.

È l’opportunismo di chi è spinto dalla consapevolezza di pericoli che, se non sono sopraffatti immediatamente, sono destinati ad imporsi. Il pericolo era soccombere alla pressione di quelle correnti del regime iraniano che non hanno gradito affatto il quinquennio di Zarif, a partire dal suo massimo emblema politico: l’intesa nucleare multilaterale sancita nel 2015. Quell’intesa, si sa, è malvoluta da molti oltranzisti, compresi quelli iraniani. A loro Zarif ha portato la sfida più temibile, quella che si fonda sulla politica del rischio calcolato, ciò che conosciamo come brinkmanship. Stephen Potter, autore di Gamesmanship (1947), sembra aver introdotto nella lingua inglese il suffisso –manship. Adlai Stevenson, governatore dell’Illinois (1943-1953), pare popolarizzò il lemma. John Foster Dulles ne fu l’interprete più acclamato. Si tratta dell’abilità di spingersi sull’orlo di un conflitto senza precipitare, evitando la propria caduta.

È un’arte necessaria ma pericolosa. Se non la si domina, inevitabilmente si precipita. Se si tenta di fuggire, se si teme di raggiungere l’orlo, si è ugualmente perduti. È una vivida ripetizione della filosofia machiavelliana della politica, che combina le idee tradizionali del fato, il quale conduce sull’orlo del baratro; del caso, che va dominato; del cogliere le occasioni, manipolandole; dell’imporre la volontà politica con un’azione determinata; della politica come arte necessaria, ossia come virtù. Statisti del passato, non solo Churchill, bensì Bismarck, Palmerston, Metternich, accoglierebbero quale inequivocabile descrizione della loro esperienza tale, ricorrente, condizione. È una politica traumatica, com’è stata quella messa in atto da Zarif pochi giorni fa, rovesciando, in poche ore, gli esiti di uno scontro lacerante affrontato con sapienza, ma rischiando tutto con le proprie dimissioni. In anni e anni di negoziati in costante stato di crisi, con rappresentanti di potenze di massimo rango, Zarif ha acquisito totale controllo della politica del rischio calcolato, mettendo ora in scacco gli avversari interni suoi e della politica che incarna. Cosicché, a ben vedere, il raffinato diplomatico devoto alla politica estera è diventato anche un politico scaltro, impegnato in campo aperto, per ora con successo, nella lotta politica interna di un regime enigmatico e temuto.

Immagine: Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (9 novembre 2016). Crediti: Gabriel Petrescu / Shutterstock.com

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