Non ci sarà nessuna “primavera” in Arabia Saudita bensì una rivoluzione dall’alto in perfetto stile monarchico. Secondo fonti provenienti dalla penisola, re Salman, 81 anni, potrebbe abdicare presto in favore del figlio Mohammad bin Salman, meglio noto come Mbs. I fotografi di corte già lo immortalano in ogni suo spostamento: barba folta nera, sguardo penetrante, keffiyeh a scacchi quadrati bianchi e rossi fermata sul capo dal tradizionale agal, una doppia banda nera a forma di “otto” piegata su se stessa per formare un doppio cerchio. Trentaduenne, già ministro della Difesa e presidente del Consiglio per gli Affari economici e di sviluppo, è diventato col passare dei mesi una figura di riferimento nell’entourage saudita fino a divenire una delle personalità più influenti del regno.

La sua storia inizia il 31 agosto del 1985 a Riyad dove nasce e studia, prima alla scuola Dhahran Ahliyya, poi all’università King Saud University. In poco tempo ottiene una laurea in giurisprudenza, ma prima di lanciarsi nel campo politico decide di lavorare in quello privato diventando segretario generale del Competitive Council di Riyad, poi “special adviser” del presidente della King Abdulaziz Foundation e infine membro del consiglio di amministrazione di Albir, una delle società per lo sviluppo più importanti del Paese. 
La transizione che lo porta dagli affari alla politica conduce Mohammad bin Salman alla filantropia. Nel 2013 fonda la MiSK Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro volta alla costruzione di una leadership saudita attorno a start-up e incubatori aziendali, e nel medesimo anno riceve il premio Forbes Middle East come riconoscimento per il suo lavoro. La svolta governativa comincia nell’aprile del 2014 quando viene nominato segretario di Stato, ministro della Difesa; successivamente, il 23 gennaio del 2015, suo padre assurge al trono e lui diviene capo del gabinetto reale con nomina al Consiglio per gli Affari economici e di sviluppo. Fin da subito si smarca dalla nuova leva dei trentenni inseriti nella corte dei Saud per ringiovanire la classe dirigente. L’ambizioso piano Vision 2030, che intende liberare l’economia nazionale dalla dipendenza dal petrolio e far diventare l’Arabia Saudita un hub di investimenti che collega tre continenti, porta la sua firma insieme all’operazione militare (sanguinosa e fallimentare per ora) Decisive Storm contro i ribelli Houthi in Yemen. Immagine 0

Mohammad bin Salman, che ha ricevuto l’appoggio del presidente statunitense Donald Trump, ha di recente affiancato a un’agenda politica sempre più risoluta un piano di riforme progressiste sul piano religioso. Così accanto alle parole pronunciate al forum economico Future investment initiative, in cui ha dichiarato di voler trasformare la società saudita (vedi le leggi sul permesso di guida per le donne, sulla riduzione del potere della polizia religiosa e ancora sull’apertura di cinema e concerti organizzati che fino a qualche mese fa erano vietati) e modernizzare la dottrina wahabita (riforma teologica per ripulire gli hadith), il giovane principe ereditario sta portando avanti non solo una violenta campagna mediatica nei confronti della Repubblica islamica dell’Iran ma un’azione mirata a colpire con incarcerazioni e confisca e blocco dei conti bancari numerose personalità della vita pubblica del Paese (principi, imprenditori, ministri ed ex ministri) perseguendoli con l’accusa di corruzione.

Mohammad bin Salman sembra intenzionato quindi a rafforzare la sua posizione in Arabia Saudita come in tutta la regione mediorientale, anche a costo di trascinare il Paese in una nuova guerra e di perseguire azioni spregiudicate in politica estera, come ad esempio la potenziale alleanza con Israele in chiave anti-iraniana e anti-sciita. Sono noti, del resto, i legami tra Mohammad bin Salman e il genero del presidente americano Donald Trump nonché suo senior advisor, Jared Kushner, che per mesi ha lavorato per rafforzare il triangolo Tel Aviv-Washington-Riyad. Il giovane principe sa però che è ancora troppo presto per gettarsi in uno scontro frontale con Teheran, per questo sembra volerlo indebolire laddove ne è uscito vincitore: colpendo in Libano Hezbollah, il partito di Dio sciita alleato del presidente cristiano Aoun, e facendo saltare la ricomposizione geografica della Siria dopo la sconfitta di Daesh ai suoi confini originari. Tutto questo spiegherebbe le dimissioni “forzate” del premier libanese nonché cittadino saudita Saad Hariri.

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