La posizione italiana in Libia appare sempre più fragile. Dopo anni di sforzi politico-diplomatici per mantenere un dialogo con il leader onusiano Fayez al-Sarraj e la riapertura della nostra ambasciata a Tripoli che, tra mille difficoltà, resta l’unico “punto di contatto occidentale” nel Paese, ora tutto potrebbe essere a rischio.

Lo scorso 20 novembre nei pressi della contesa città di Tarhuna, è stato abbattuto un drone italiano che ha portato a un deciso monito da parte dell’Esercito nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar. «Stiamo ancora aspettando – ha affermato il suo portavoce, Ahmed al-Mesmari – una dichiarazione ferma dall’Italia sulle ragioni di questo volo sul territorio libico e in una zona di divieto di sorvolo». Parole che lasciano poco spazio a fraintendenti sulla reazione del generale e sulla sua posizione nei confronti di Roma, che non ha fin qui fornito risposta. La stessa risposta che sembra mancare anche davanti ai frequenti attacchi aerei da parte delle milizie di Haftar vicino all’ospedale italiano all’interno dell’aeroporto di Misurata, realizzato nell’ambito della missione Ippocrate.

Roma appare al momento in una posizione di impasse che, in un momento così delicato per gli equilibri libici, interni e internazionali, forse non è auspicabile. Quali potrebbero essere le azioni da mettere in campo?

In primo luogo si potrebbe “ricompattare” il legame con Tripoli. A solo titolo esemplificativo ricordiamo come il vicepremier libico, Ahmed Maitig, uomo forte di Misurata e fin qui molto vicino all’Italia, abbia cercato di riallacciare i contatti con Parigi dopo le frequenti accuse alla Francia di sostenere Haftar. Forse la visita di Maitig ha avuto lo scopo di “riempire il vuoto” lasciato dall’Italia. Misurata potrebbe essere la città forte del futuro libico e i francesi difficilmente rischierebbero di perdere questa opportunità.

Sarebbe poi necessario ritrovare una chiara linea politica per la Libia capace di difendere il nostro interesse nazionale, soprattutto alla luce dei molteplici e fallimentari approcci multilaterali fin qui esperiti dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Durante il briefing al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla situazione nel Paese Ghassan Salamé ‒ inviato ONU per la Libia ‒ ha affermato senza mezzi termini: «Sono arrabbiato e triste (…) ci troviamo sempre più in una corsa contro il tempo per raggiungere una soluzione pacifica che risparmierebbe molte vite». Nelle pieghe della diplomazia è facile leggere lo sconforto di Salamé per l’assenza di una linea internazionale comune. Le Nazioni Unite di oggi non sono quelle del 2011, concordi nell’intervenire in Libia per defenestrare il rais. Il motivo va rintracciato nel fatto che ogni Stato ha i suoi alleati sul terreno e ognuno gioca la sua partita che, evidentemente, prevale sull’interesse comune. Questo ci pone nella spiacevole condizione di agire da soli a livello diplomatico, almeno per ora. E non siamo certo gli unici_._

Di recente il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, è volato a Zuwara per incontrare il suo omologo del governo di accordo nazionale libico, Mohammed Sayala, e il premier Fayez al-Sarraj. Poi è partito alla volta del Cairo per incontrare al-Sisi, alleato di Haftar, e successivamente nella Turchia vicina alle forze islamiste dell’Est, dove ha avuto un colloquio con il capo della diplomazia di Ankara, Mevlüt Çavuşoğlu. È evidente che la Germania, come anche altre potenze, ha ben compreso che la partita si gioca tra gli attori regionali che armano e finanziano le milizie sul terreno: Turchia e Qatar con l’Est e Sauditi, Egitto ed Emirati con Haftar. Anche l’Italia, se volesse, potrebbe dispiegare un’azione simile, cercando, ad esempio, una sponda diplomatica con il Cairo. Pure con il Qatar i rapporti stanno migliorando. È l’economia a farla da padrone: la Qatar Investment Authority (QIA) ha numerosi progetti di investimento in Italia, specie nel settore del lusso. Un motivo in più per ampliare i rapporti diplomatici con questo Paese nevralgico.

Infine, non va sottovalutato il rinnovato attivismo americano nell’area, che potrebbe giocare a nostro favore. Pochi giorni fa una delegazione americana ha incontrato Haftar nel suo quartier generale nei pressi di Bengasi per convincerlo a fermare l’offensiva su Tripoli. Se è vero che Washington ha fin qui dato l’impressione di considerare la Libia come un contesto piuttosto marginale, dopo la visita di Erdoğan a Washington dello scorso 13 ottobre l’interesse americano sembra notevolmente cresciuto. È probabile che il ruolo sempre più rilevante dei contractor russi del Wagner Group, che combattono con Haftar, abbia destato timori alla Casa Bianca. Un maggiore allineamento con gli Stati Uniti potrebbe essere l’occasione per l’Italia di far sentire la propria voce visto che gli USA stanno assumendo una posizione più assertiva contro Haftar_._ Si potrebbero altresì sfruttare i nostri rapporti con la Russia ‒ tra l’altro, a meno di smentite dell’ultima ora, tra qualche giorno il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov sarà in Italia per una serie di incontri ufficiali ‒ per cercare di mediare tra i due maggiori player mondiali sulla questione libica.

In sintesi, possiamo dire che vi sono ancora molte opzioni a disposizione per perseguire un’azione chiara che tuteli la nostra presenza militare, l’ambasciata e una lunga storia di diplomazia volta ad avere un ruolo di equilibrio in aree così delicate.

Probabilmente, tra non molto, la Conferenza di Berlino sulla Libia potrà offrire delle chances per riaffermare il ruolo dell’Italia in quello scenario. Il trascorrere del tempo, però, non gioca a nostro favore.

Immagine: Bengasi, Libia (14 aprile 2012). Crediti: thomas koch / Shutterstock.com

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