Nel breve periodo le priorità della politica estera degli Stati Uniti saranno due: raggiungere un accordo con l’Iran per fermare il suo programma nucleare e risolvere il conflitto fra Israele e Palestina. È quanto ha affermato il presidente Barack Obama nel suo discorso alle Nazioni Unite, tenutosi lo scorso 24 settembre contestualmente ai lavori della 68esima Assemblea Generale. Nel suo intervento, durato oltre quaranta minuti, Obama non ha mai parlato della regione dell’Asia-Pacifico, quella che nel 2011 era stata individuata come uno degli obiettivi principali degli sforzi diplomatici degli Stati Uniti, appunto, “il pivot”.

Nel suo discorso Barack Obama ha parlato a lungo della Siria e della posizione degli Stati Uniti sul conflitto: «Riguardo alla Siria, noi crediamo che prima di tutto la comunità internazionale debba far rispettare il bando sull’uso delle armi chimiche» e ha proseguito parlando della posizione di Iran e Russia: «È tempo che Russia ed Iran si rendano conto che continuare a sostenere il governo di Assad porterà a ciò che temono di più: un’area sempre più violenta dove gli estremisti potranno operare».

Il presidente ha poi proseguito dichiarando dove saranno concentrati gli sforzi diplomatici del governo americano nei prossimi anni: in Iran e nel Medio Oriente, perchè «anche se queste questioni non sono la causa di tutti i problemi della regione, sono state una delle principali fonti di instabilità per troppo tempo. Risolvere queste problematiche significherebbe creare le basi per una più ampia pace».

Nel resto dell’intervento Obama ha accennato all’intervento degli Stati Unti in Iraq e Afghanistan, all’azione in Libia, ha parlato di Egitto, delle Primavere arabe e della sicurezza del Nord Africa, ma non si è mai soffermato sulla regione dell’Asia-Pacifico, che comprende paesi come Cina, le Coree e il Giappone. Sembra che l’amministrazione Obama, nei tre anni che mancano al presidente per portare a termine il suo secondo mandato, rinuncerà al proposito di convogliare più sforzi verso l’Estremo Oriente e di garantire quindi un riposizionamento strategico per aumentare l’importanza degli Stati Uniti nell’area.

In un editoriale intitolato America’s Pacific Century, pubblicato nell’ottobre del 2011 su Foreign Policy, Hillary Clinton, ex segretario di Stato degli Stati Uniti, aveva scritto che, dopo gli sforzi americani in Afghanistan e in Iraq, il proprio paese avrebbe dovuto spostare la propria attenzione in materia di politica estera perché: «Il futuro della politica verrà deciso in Asia, non in Iraq o in Afghanistan, e gli Stati Uniti saranno al centro dell’azione». La giustificazione del cambiamento di rotta della strategia americana per mantenere la propria influenza nella politica internazionale veniva spiegata in termini di importanza geografica, economica e demografica della regione dell’Asia-Pacifico.

I mezzi con cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto realizzare il proprio spostamento verso il “pivot to Asia” erano economici, politici e militari. Sempre nell’editoriale dell’ex segretario di Stato si legge che il presidente si sarebbe impegnato per preservare il libero mercato nella regione, regime vitale per il commercio e la crescita economica degli stessi Stati Uniti. Per quanto riguarda i mezzi politici, l’attenzione veniva data al sostegno delle istituzioni democratiche, già esistenti o da costruire. Sul piano della sicurezza, un denso rapporto commissionato dal dipartimento della Difesa americano al CSIS (uno dei più influenti think tanks americani) e pubblicato nell’agosto del 2012 rappresenta bene quelle che erano le intenzioni degli Stati Uniti sulla regione. L’analisi è intitolata U.S Force Posture Strategy in the Asia Pacific Region e descrive gli interessi degli Stati Uniti nella regione e le opzioni disponibili per rendere il riposizionamento militare e strategico americano il più efficace possibile nella tutela dei propri interessi. Questioni centrali, in materia di sicurezza nazionale, erano l’emergere della Cina come potenza globale e la politica estera aggressiva del regime nord coreano.

Il piano di Barack Obama di divergere l’attenzione della politica estera americana dall’area del Medio Oriente a quella dell’Estremo Oriente sembra essere ora svanito. Una spiegazione potrebbe essere data seguendo l’attualità internazionale: la recrudescenza del conflitto siriano, con tutte le sue implicazioni sia per l’area, sia sul piano della lotta al terrorismo e all’estremismo militante islamico, avrebbe impedito al governo statunitense di tenere fede ai propri piani.

Il New York Times, però, in un articolo del 24 settembre intitolato For Obama, en evolving doctrine on Foreign Policy, dà anche un’altra interpretazione delle scelte del governo sul piano della politica estera. Obama si starebbe concentrando su scenari dove una politica di successo garantirebbe all’amministrazione una “memoria” positiva, soprattutto considerando i fallimenti che i due presidenti che hanno preceduto Obama hanno riportato in Medio Oriente. L’unica perplessità, annota il New York Times, è l’improbabilità che l’attuale presidente riesca in poco più di tre anni a sciogliere tensioni incancrenite, ed irrisolte, da tempo.

Sulla rinuncia al “pivot to Asia” è critico il politologo americano Ian Bremmer: l’America sta registrando un declino della propria influenza su scala globale e l’abbandono della politica estera concentrata nella regione dell’Asia-Pacifico non potrà che far continuare tale processo, soprattutto a fronte dell’emergere della Cina come potenza economica e politica globale, secondo Bremmer: «la più importante sfida all’autorità americana».

Pubblicato in collaborazione con Meridiani Relazioni Internazionali

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