Un ritorno al passato. Potremmo definire così la fase che caratterizza le relazioni tra America latina e Asia da almeno dieci anni. Storicamente, infatti, i primi contatti tra le due aree risalgono alla scoperta dello stretto di Magellano, quella lingua di mare che consentì agli spagnoli di aprire la prima rotta verso le Filippine e da lì al resto dell’oriente, alla Cina, all’Indonesia e poi all’Australia e alla Nuova Zelanda.
Si trattava sostanzialmente di traffici privati, di commercio, di ricerca di nuovi sbocchi per le tante risorse naturali di cui era ricca ed è tuttora ricca l’America latina. Nei secoli successivi poco cambiò finché la rivoluzione industriale mutò le priorità geostrategiche, le rotte e i traffici e, a livello politico, l’America latina si ritrovò nella sfera del Nord del mondo, periferia di un impero che guardava gli Stati Uniti e al suo estremo oriente, l’Atlantico e l’Europa.
Dai primi anni di questo nuovo secolo la prospettiva sembra però cambiata e i tra i due continenti transpacifici sono cominciati intensi e fruttuosi contatti.
Forse è presto per considerare quello che stiamo vivendo “il secolo del Pacifico”, come ha affermato il presidente Obama a Camberra o scritto Hillary Clinton in un suo articolo su Foreign Policy. Ammettere questo cambio di priorità geografica, economica e politica significherebbe, infatti, relegare al ruolo di comprimari quei Paesi a capitalismo maturo che sono stati i protagonisti della storia recente e che si trovano ora in una fase di recessione e di perdita di leadership politica.
Senza arrivare a queste estreme conseguenze, quel che sembra chiaro è che nei prossimi anni il mondo dovrà guardare sempre più alla relazione Sud-Sud come a un nuovo polo della geografia post-globalizzazione neoliberista.
Risponde proprio a questa esigenza di nuove geometrie economiche il consolidamento della Alianza del Pacifico, ultimo nato tra i blocchi regionali latinoamericani. Siglato nel 2011 da Cile, Messico, Perù e Colombia (Costa Rica, Panama e Canada sono per ora paesi osservatori) con il proposito di consolidare le relazioni tra i Paesi latinoamericani che si affacciano sul Pacifico, il trattato istitutivo della Alianza ha subìto un’accelerazione con la firma, lo scorso 6 giugno a Antofagasta in Cile, di un accordo-macro in materia di libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone.
Si tratta, in altri termini, del consolidamento del processo attraverso la creazione di un’area di libero commercio e d’integrazione infrastrutturale ed energetica che guarda, per vocazione geografica, a quell’area del mondo, l’Asia-Pacifico, che in questa fase sta sostenendo la domanda e trascinando la crescita mondiale. Un accordo-macro, tra l’altro, che segue di pochi mesi la creazione del MILA (Mercato Integrato Latinoamericano) di cui fanno parte le borse valori dei quattro soci e che rappresenta il sistema di borse valori più grande dell’America latina in termini di società quotate.
L’alleanza del Pacifico si candida a fornire materie prime, alimenti e servizi di cui quei Paesi hanno bisogno e offre come contropartita un mercato di più di 200mila potenziali consumatori, che sviluppa un Pil pari al 36% di quello dell’intera America latina e con un export che pesa per il 55% del totale dell’area.
Paesi molto dinamici, insomma, quelli che si affacciano sul Pacifico, che hanno tassi di crescita economica elevati, che scommettono su un’economia aperta e fondano la propria sfida a un sistema progressivamente sempre più protezionistico sulla firma di accordi di libero scambio (al giugno del 2011, si contano dodici TLC transpacifici già siglati e in vigore, tre siglati ma non ancora in vigore e altri sei in fase di negoziazione).
L’obiettivo è chiaro e le potenzialità altrettanto. Il nuovo blocco si propone come una piattaforma strategica verso i Paesi dell’Asia. Soprattutto e in primo luogo la Cina, che è già il primo mercato delle esportazioni del Brasile e del Cile e il secondo per il Perù, Cuba e Costa Rica. Secondo i dati resi noti del rapporto CEPAL “Cina e America latina e Caraibi: verso una partnership economica e commerciale” pubblicato lo scorso marzo, l’intercambio commerciale tra le due aree è ormai vicino ai 200 milioni di dollari e la Cina è già un socio commerciale importantissimo per la regione. L’Alleanza guarda a tutta un’area – non solo “impero del dragone”, quindi – che include Giappone, India, Australia, Corea, Vietnam, Indonesia e Malesia: tutte potenze economiche a pieno titolo valutabili come regional players.
L’Alleanza del Pacifico può avere potenzialità interessanti anche per la sua configurazione strutturale innovativa. Alla presenza di tre Paesi sudamericani ne unisce uno nordamericano, cosa che fa preludere a nuove geometrie anche su altri scacchieri come quello del Nafta che già lega Stati Uniti, Canada e Messico.
Stiamo parlando, insomma, di lunga dorsale di costa del Pacifico che potenzialmente va dall’Alaska alla Patagonia cilena.
In un contesto americano, poi, in cui i blocchi regionali emisferici sembrano in affanno, privi come sono di incisività e autorevolezza politica (la situazione di semi-conflittualità su molti dossier in cui versa Organizzazione degli Stati Americani ne è l’esempio più evidente) e quelli regionali come il Mercosur attraversano un fase di paralisi e di mancanza di iniziativa politica, l’Alleanza potrebbe essere uno strumento da valutare positivamente nel più generale ripensamento delle alleanze regionali e globali in corso in America latina.
Sempre dal punto di vista delle dinamiche geografiche regionali, un ulteriore elemento di riflessione riguarda il fatto che questo blocco escluda, per ora, il Brasile, un paese continente che, al pari della Cina, ambisce a giocare un “suo” ruolo nella ricomposizione dei nuovi rapporti di forza che si avranno al termine della crisi finanziaria e economica che stiamo vivendo. Sarà interessante capire quale ruolo intenda ritagliare per sé quello che è il paese leader per superficie, popolazione, Pil e Pil pro-capite dell’Alleanza, il Messico, e se la sua classe dirigente intenda procedere verso un proprio ruolo autonomo o decida, al contrario, di orientarsi verso una partnership strategica con Brasilia.
Il fatto, poi, di configurare il blocco, almeno in una prima fase, come un accordo molto meno burocratico dal punto di vista commerciale e senza un’agenda programmatica definita dal punto di vista della cooperazione politica potrebbe agevolare gli obiettivi macroeconomici dei soci. Resta il dubbio, tuttavia, che questa scelta di disimpegno in tema di dialogo politico corra il rischio di mostrare a lungo andare l’intrinseca e strutturale debolezza della Alianza.
Un altro tema, poi, su cui si misurerà l’efficacia del progetto riguarda la “clausola democratica” prevista per i partners del Trattato. L’accordo-macro prevede, infatti, la vigenza dello stato di diritto, la presenza di un sistema democratico nei paesi aderenti e il rispetto delle norme costituzionali (l’eco delle dittature, così vicine nel tempo per quei Paesi, è evidente). Si tratta chiaramente di caveat che limitano i Paesi che intendono associarsi. Tuttavia, risulta stridente la contraddizione politico-culturale di una richiesta di natura squisitamente “politica” ai membri interni latinoamericani e la disponibilità, allo stesso tempo, a trattare impegni e accordi con Paesi, quali quelli asiatico-pacifici, che in molti casi non rispettano al proprio interno queste pre-condizioni o che le percepiscono come una richiesta inutile e, al limite, come un ostacolo insormontabile per un dialogo politico culturale che trascenda il mero dato commerciale. In questo senso, solo il tempo ci mostrerà fino a che punto i vari sistemi saranno capaci di integrarsi e diventare complementari e se e in che misura si riuscirà a sviluppare un dialogo e una cooperazione politica bilaterale e multilaterale, che devono essere, in ogni caso, l’obiettivo ultimo di una strategia di lungo termine.
Qual che va auspicato, in ogni caso, è che la relazione tra Asia e America latina possa finalmente fare un salto di qualità, dando vita a alleanze imprenditoriali, commerciali e tecnologiche su nuove basi. Finora, infatti, i flussi commerciali transpacifici sono stati caratterizzati dall’export di materie prime per i latinoamericani e per quello di manufatti a basso valore aggiunto nel caso degli asiatici. In altri termini, l’aumento delle relazioni commerciali con la Cina, e più in generale con l’Asia, non ha comportato un miglioramento dell’inserzione commerciale dell’America latina nell’economia globale e ancor meno un miglioramento in termini di produttività e innovazione tecnologica.
Il consolidamento della Alianza quale blocco economico avrà certamente l’effetto di migliorare la capacità di negoziato ma resta il sospetto che, in un sistema economico del presente e del futuro in cui innovazione e tecnologia faranno la differenza, rimanere arretrati proprio su questi fronti significhi relegarsi al ruolo di “paesi satellite” delle grandi potenze. Il caso del Messico, in questo senso, presenta ulteriori spunti di analisi. Questo Paese, infatti, più che complementare alle economie asiatiche sembra piuttosto concorrenziale ad esse. Recenti studi di J.P. Morgan sul Messico mettono in evidenza che se dieci anni fa il settore manifatturiero cinese era del 237% più economico di quello messicano, oggi lo è solo del 14 %. Se a questa percentuale sottraiamo gli alti costi di logistica e trasporto dalla Cina agli Stati Uniti, il Canada o il Brasile, non è peregrino affermare che, forse, la vera Cina è il Messico ed è più vicina di quanto di pensi.
In conclusione, le riflessioni che il consolidamento dell’Alleanza del Pacifico sollecita sono molte e complesse e investono considerazioni di carattere politico e valutazioni di natura economica. Dipendono, oltre tutto, dalla necessità di ripensare il ruolo che alcuni Paesi hanno assunto finora nell’ambito della divisione internazionale del lavoro e dalla capacità delle prossime classi dirigenti di saper immaginare e realizzare un salto di qualità nella fase successiva alla crisi economica e finanziaria. La frontiera del Pacifico resta, in ogni caso, una sfida che l’America latina del XXI secolo non può non accettare e provare a vincere, soprattutto in un momento in cui l’Europa sembra distratta dalla sua agenda interna e poco attenta a quel tanto che si muove al suo estremo occidente.