E alla fine il trionfatore di queste elezioni olandesi, che in teoria avrebbero dovuto marcare il boom del partito populista euroscettico di destra e anti-immigrati di Geert Wilders, è un trentenne ambientalista filoeuropeo di sinistra di origini marocchino-indonesiane: non esattamente un grande spot pubblicitario per la (già traballante) affidabilità dei sondaggi pre-elettorali.

Rientrato il panico per lo spauracchio Wilders, si aprirà nelle cancellerie europee la stagione dell'analisi di questa apparente vittoria contro il populismo. Il rischio, per tutti, è ora quello di sottovalutare il disagio reale di cui il voto populista è soltanto un sintomo e trasformare acriticamente questo caso molto particolare in una "best practice" per i partiti di governo, da applicare in ogni contesto.

Per provare a comprendere meglio la situazione, invece, occorre partire proprio dai risultati. E ripercorrere il cammino attraverso il quale ci si è arrivati.

In realtà, a ricevere il maggior numero di voti non è stata la Sinistra Verde guidata da quel Jesse Klaver che ormai chiamano “il Jessiah”, per la speranza che ha saputo ridare a una sinistra che altrimenti rischiava di scomparire dal panorama politico olandese. Sicuramente è il partito che ha registrato la crescita più significativa: quadruplicando i seggi in Parlamento, potrebbe anche svolgere un ruolo nella formazione della prossima coalizione di governo.

La “macchina da guerra“ di Wilders, invece, si è fermata a percentuali addirittura inferiori a quelle raggiunte alle elezioni del 2010, quando la percezione della sua minaccia per l'Europa era ben lontana dal suscitare il panico vissuto nelle scorse settimane nelle cancellerie di Berlino, Parigi e Roma.

A quietare definitivamente il clima emergenziale tra i governi europei è stato il fatto che i migliori risultati siano stati appannaggio, ancora una volta, del premier in carica, Mark Rutte. Anche aiutato dagli scontri diplomatici con il presidente turco Erdoğan nelle ore precedenti il voto, che hanno compattato il Paese attorno al proprio governo, ha saputo conquistare 33 seggi. Un calo del 5,2% rispetto alle scorse elezioni, ma comunque ben 13 in più rispetto ai 20 del PVV di Wilders.

La sfida che ora aspetta Rutte è quella di riuscire a formare un nuovo esecutivo, per il quale dovrà accordarsi con almeno altri tre partiti al fine di ottenere una maggioranza affidabile. In prima fila ci sono i liberali del partito D66 e i conservatori dell'Alleanza Cristiano Democratica, entrambi con appena un seggio meno del PVV. Il quarto membro della coalizione dovrà essere individuato tra uno degli altri nove partiti che saranno rappresentati in Parlamento: Socialisti (14 seggi), Sinistra Verde (14), Laburisti (soltanto 9 seggi, ovvero ben 29 in meno rispetto alle scorse elezioni), Unione Cristiana (5 seggi), Animalisti (5), Pensionati 50+ (4), Partito Politico Riformato (3), DENK (3), Forum per la Democrazia (2).

Alcuni di questi ultimi sono alleati estremamente improbabili per via delle posizioni molto eterodosse che esprimono. Altri avrebbero la strada già spianata, a partire dagli sconfitti laburisti, forti del fatto di essere stati in coalizione con Rutte nell'ultima legislatura. Comunque sia, tutte queste sono ormai questioni che rientreranno a far parte del dibattito interno olandese, del quale il resto della popolazione europea tornerà presto a disinteressarsi completamente, com'era sempre stato fino al grido di allarme lanciato qualche settimana fa.

Ora che è svanito il timore per le calamità mondiali che molti analisti attribuivano a un'eventuale vittoria di Wilders, per i soggetti politici europei le tentazioni sono due: quella di derubricare l'intero accaduto come un "falso allarme" o, al contrario, di fraintendere questo esempio specifico come una "ricetta segreta" vincente nella lotta al populismo.

È possibile che effettivamente l'intera situazione sia stata sopravvalutata? Da un lato sì. Col senno di poi, i voti ottenuti da Wilders non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai casi Brexit e Trump (entrambi capaci di conquistare almeno un elettore su due). Anche nei sondaggi più favorevoli, il PVV non aveva mai sfondato il 20% (dunque un elettore ogni cinque: una differenza sostanziale). Ma la possibilità che un malessere diffuso esplodesse nelle urne, regalando a Wilders risultati ben superiori, così come accaduto nei casi della Brexit e di Trump, obiettivamente c'era.

E a influire sul risultato, in un certo senso, potrebbe avere contribuito in modo sostanziale anche la stessa attenzione mondiale ricevuta dalla campagna elettorale. Un po' come, nella meccanica quantistica, in base al principio di indeterminazione di Heisenberg, si ritiene che l'atto stesso dell'osservare finisca per alterare ciò che si osserva. Molti olandesi, parrebbe, hanno sentito la responsabilità di cui li aveva caricati la forte pressione sociale globale e sono accorsi alle urne in numeri che non si vedevano dal 1981: fattore che ha contribuito in maniera decisiva a ridurre la percentuale di consensi per Wilders.

Tutto questo però va contro alle analisi successive al voto britannico e statunitense (o anche al referendum costituzionale italiano), letti come una presa di posizione contro ciò che era percepito come la "volontà delle élite". Ad esempio, gli scenari apocalittici che venivano dipinti dagli analisti in caso di vittoria di Wilders, non erano affatto differenti dal cosiddetto "project fear" applicato durante la campagna per la Brexit.

In quel caso il tentativo di terrorizzare gli elettori con le possibili drammatiche conseguenze di una vittoria del "sì" aveva però avuto il risultato opposto, finendo per rafforzare proprio chi voleva lasciare l'Unione: orgogliosamente contrari a farsi dettare dagli "esperti" e dal resto del mondo come dovessero votare.

Per capire perché questa stessa strategia, nel caso olandese, sia stata funzionale a far "rientrare nei ranghi" gli elettori, bisogna tornare ai fondamentali del Paese. Le condizioni economiche e sociali nei Paesi Bassi sono mediamente a livelli molto elevati (benessere diffuso, bassa disoccupazione, una società aperta nella quale pochi si sentono esclusi e ignorati dal potere). In queste condizioni, il "project fear" funziona: la gente ha paura di perdere ciò che ha. Sappiamo già, però, come non sia affatto così nei contesti in cui crescenti fette di popolazione sentono di non avere più niente da perdere.

Da questo punto di vista, sarà interessante vedere lo spaccato territoriale del voto, quando si conosceranno nel dettaglio i risultati nelle varie province e territori olandesi. Tra questi sono presenti differenze sociali marcate, che ricordano talvolta i contesti di altri Paesi e potrebbero aiutare a comprendere meglio quali siano le radici profonde di un malessere comunque presente, quantomeno in uno strato della popolazione. E capire se e quando questi fenomeni potranno ripresentarsi e come rispondere in modo efficace, in Olanda e altrove.

Il commento di Geert Wilders al termine dello scrutinio, perfettamente in linea con la sua immagine pubblica di "cattivo da fumetto", è stato appunto: "Non vi siete ancora liberati di me". E se le sue sorti personali al momento non appaiono promettenti, non si può dargli torto riguardo al liberarsi delle sue idee. Queste hanno ormai attecchito, adottate persino in parte dallo stesso premier Rutte, impegnato in ogni modo a recuperare al suo partito anche i voti più ostili agli immigrati. Insomma, se questa sarà stata una vittoria dalla quale prendere spunto, forse è presto per dirlo.