Bordo bereliler 2: Afrin è il secondo episodio di una serie dedicata alle forze armate che uscirà proprio oggi (23 marzo) sugli schermi turchi. Non ci sarebbe di che stupirsi: qualunque Paese dalla forte cultura nazionalista e militaresca – e la Turchia lo è – ama sfruttare le potenzialità del grande e del piccolo schermo per celebrare le imprese del proprio esercito. Non fosse che l’operazione Ramo d’Ulivo (consentitemi di non usare il più popolare Ramoscello, la guerra è qualcosa di più contundente) è stata ufficialmente conclusa soltanto cinque giorni fa, con la caduta della città di Afrin nelle mani delle truppe di Ankara. E infatti il tabloid turco Posta rivelava, in un articolo del 20 marzo, come le riprese fossero terminate già prima della presa del capoluogo del cantone curdo nel Nordovest siriano. Tutto ciò può sembrare marginale, eppure va considerato rivelatore di come l’operazione Ramo d’Ulivo sia stata investita di un potente messaggio, diretto a diversi destinatari, e per questo pianificata nei minimi dettagli non soltanto dal punto di vista bellico, ma anche propagandistico.

Rientra in questa volontà di comunicazione (violenta) anche che la campagna militare si sia conclusa il 18 marzo, giorno di festa nazionale che celebra la vittoria di Çanakkale delle schiere ottomane contro le potenze straniere. Dai martiri della guerra del ’15-’18 ai martiri del 2018, il messaggio è rivolto alle potenze straniere che, nel tradizionale complottismo turco – storicamente fondato e poi costantemente rinfocolato, alimentato, esasperato nei decenni kemalisti come in quelli del potere di Erdoğan – da secoli tramano per indebolire e frammentare l’Anatolia, turca o ottomana che sia.

«Ad Afrin, Jarablus e al-Bab – quest’ultime obiettivi della precedente operazione Scudo d’Eufrate –, abbiamo dimostrato cosa possiamo fare quando sono in gioco la nostra indipendenza e il nostro futuro», ha dichiarato Erdoğan in un messaggio evidentemente diretto agli altri attori internazionali, Stati Uniti, Russia, Siria, Iran, anche l’Unione Europea.

Eppure non siamo soltanto noi e gli altri, i destinatari di questo messaggio. Il governo turco, nella sua manifestazione di (pre)potenza militare, parla anche ai suoi cittadini. Ne riscalda gli animi già arroventati da tre anni di eventi catastrofici per il benessere del Paese: il fallimento del processo di pace con il Partito del lavoratori curdi (PKK), gli attentati, il tentato golpe dai contorni e dalle implicazioni ancora fumosi, lo stress delle istituzioni democratiche sull’orlo del collasso. Perché da alcuni anni il potere di Erdoğan si fonda, oltre che sul mantenimento di un livello di allarme altissimo e incarnato nel perenne stato di emergenza, sulla convinta riscoperta del nazionalismo, dopo gli albori europeisti ed i machiavellici tentativi di conciliazione con il mondo della sinistra curda e autonomista.

L’elettorato nazionalista non è, però, così unito come può sembrare, né è pronto a lanciarsi senza sentimento nelle braccia del reis, che sapientemente martella sui temi a lui congeniali – e cosa c’è di meglio di una guerra – che solleticano la pancia della destra turca, e al tempo stesso lavora di lima sui nodi scomodi. Uno di questi è senz’altro la presenza di tre milioni e mezzo di rifugiati, per lo più siriani, nel Paese. In un torbido mescolarsi di azione umanitaria e spietato pragmatismo, Erdoğan ha trasformato l’emergenza umanitaria in un vanto nazionale: la Turchia accoglie i migranti che l’Europa cinica disprezza e respinge. Onore alla Turchia.
Non è questa la sede per sviscerare l’argomento, ci basti notare che se l’ala pia dell’elettorato di Erdoğan abbraccia quest’idea di fraterna accoglienza verso la comunità musulmana tutta, l’ala del nazionalismo etnico non è proprio così contenta, anzi: le tensioni montano. Il Partito di giustizia e sviluppo (AKP), con l’orecchio fino per gli umori del popolo e un enorme apparato di sondaggi messo in moto settimanalmente per tastarne il polso, ha carpito il messaggio e con un occhio sempre teso alle elezioni – nel 2019 sì, ma questo è un Paese di perenne campagna elettorale – ecco che ha lanciato un secondo messaggio: Afrin è la soluzione, il luogo dove centinaia di migliaia di rifugiati potranno tornare, dopo che l’esercito avrà messo in sicurezza la regione. Si è scomodata anche la first lady turca, per l’occasione.

Da qui nascono le accuse mosse al governo di aver fatto di un’operazione militare contro l’eterno nemico curdo – PYD (Partito dell’unione democratica del Kurdistan), YPG (Unità di protezione popolare), PKK, KCK (Unione delle comunità del Kurdistan) e tutte le altre sigle dell’autonomismo curdo armato e non, con una spruzzata di Isis, anche se ad Afrin non c’era mai stato, perché tutto fa brodo – un’operazione di ingegneria sociale.

Afrin è una regione curda di circa 200.000 anime, fino a due mesi or sono intoccata dal conflitto, in cui avevano trovato rifugio altrettanti sfollati. Ma è anche una regione in cui ha messo radici un’ideologia, quella del confederalismo democratico teorizzata dall’arcinemico Öcalan, che dalle parti di Ankara equivale a sabbia negli occhi. Un’ideologia con tutti i suoi limiti, contraddizioni, difficoltà di applicazione – specialmente in un contesto di guerra – sulla quale non è questo il luogo per esprimere un complicato giudizio. Di certo è ferocemente osteggiata dallo stato turco, che da essa si sente minacciato perché predica valori opposti e contro la quale perciò vale la pena non solo fare la guerra, ma anche organizzarsi per un’iniezione di qualche centinaio di migliaio di sfollati. Ai quali non sappiamo neppure se sia stato chiesto se va bene, o se magari preferiscono restare in un Paese, la Turchia, dove hanno cominciato a mettere radici.

Un’operazione di umanitaria ingegneria sociale – coagulando termini in quel paradosso che è la Siria oggi –  che non è neppure detto riesca. A Jarablus e al-Bab, ad esempio, non sta avendo grande successo, ma sono dinamiche che prenderanno forma soltanto nel tempo. L’importante, per ora, è aver detto al proprio elettorato rumoreggiante che sì, stiamo pensando anche a voi: risolveremo la questione dei rifugiati mandandoli ad Afrin.

E i Curdi? Per ora l’unica certezza è che hanno perso uno dei tre cantoni, il più debole, indifeso ed isolato, ma anche l’unico che poteva vantare sette anni di pace in mezzo a sette anni di guerra. Hanno perso militarmente, ma era difficile pensarli vittoriosi dopo che il loro supposto alleato regionale, gli Stati Uniti, ha guardato dall’altra parte. Così come ha fatto la Russia, senza il cui consenso, voluto o strappato che sia, la Turchia non avrebbe fatto proprio nulla.

Ramo d’Ulivo ha sorpreso molti non tanto per l’esito, quanto per la velocità con cui s’è conclusa rispetto alla precedente operazione Scudo dell’Eufrate.

La differenza più lampante è la qualità delle truppe schierate. L’operazione su Afrin ha visto due fasi, una più arrancante all’inizio, una seconda di rapido avanzamento dell’esercito turco (TSK) e il crogiolo di formazioni che compone l’Esercito libero siriano a guida turca (TFSA), dentro cui troviamo di tutto un po’. Ad un certo punto c’è stata un’iniezione nelle truppe di terra di reparti speciali TSK che ad al-Bab era avvenuta marginalmente e che è si è rivelata determinante, indice della voglia di Ankara di rispettare la tabella di marcia e arrivare alla vittoria nei tempi stabiliti – il perché l’abbiamo visto prima.

Le forze curde (YPG) si sono dimostrate poco efficaci nel contenimento in campo aperto, ma a parte la resistenza trincerata iniziale, senza copertura aerea, come altrimenti poteva finire?

Rispetto alla resistenza dell’Isis ad al-Bab poi, le YPG ad Afrin non hanno accettato l’assedio: se ne sono andate prima. I sostenitori curdi diranno “per evitare un massacro di civili”, i detrattori “per incapacità di opporre resistenza”, entrambe le cose non si contraddicono.

Fondamentale è un punto di riflessione finora trascurato: perché gli altri cantoni, e in generale i movimenti curdi, hanno dato poco appoggio ad Afrin. Credevamo che avrebbero opposto una resistenza militare, almeno numericamente, più consistente. Invece, l’afflusso di milizie dalle altre regioni della Rojava è stato debole, neppure hanno provato ad aprire un fronte orientale da Manbij, per disturbare le operazioni turche.

La domanda che bisogna porsi è: gli è stato impedito? Da chi o cosa? Dalla strategia turca, che punta a creare un blocco sunnita nel Nordovest siriano per capitalizzare sul futuro della regione? Dagli americani, che non solo non hanno mosso un dito, ma hanno anche attivamente frenato una mobilitazione nei cantoni orientali? Dal rubinetto del corridoio meridionale di Aleppo, che Russia ed Assad hanno aperto solo per lasciar passare qualche carovana e una manciata di combattenti filoiraniani, anch’essi, senza copertura aerea e mandati al massacro?

Oppure anche la Rojava ha giocato la carta dell’aggressione ad Afrin: sacrificare un cantone che militarmente non poteva tenere per cercare di guadagnare sostegno internazionale, ma finendo per sbattere contro il disinteresse della comunità internazionale, europea in prima fila. Le amministrazioni curde continuano a puntare il dito e denunciano le responsabilità di “chi poteva intervenire”. Abituati storicamente più alla guerriglia che alla guerra, sono delusi dalla mancata solidarietà che, a parte qualche tardiva e inutile mozione del Parlamento europeo, è stata nulla. Questo è il vero fallimento curdo: tenere militarmente Afrin era impossibile, ma raccogliere solidarietà concreta sì, e non è successo. Dobbiamo chiedercelo, perché ora Erdoğan punta il mirino verso est e gli altri cantoni. Chiede agli americani una cooperazione – leggere, abbandonare i Curdi siriani – che, se non arrivasse, si tradurrà ancora in guerra.

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