Perché occuparsi della Repubblica Democratica del Congo e delle sue guerre quando, per dire, ci si occupa a stento di quelle limitrofe, come la Libia, o più prossime, come quella d’Ucraina? La domanda sarebbe ben posta e non avrebbe risposta univoca: si potrebbe sostenere che è importante occuparsi delle vicende di uno dei Paesi più grandi e popolosi del mondo, il più grande dell’Africa centrale e subsahariana; oppure che la sua centralità in quel continente ne fa giocoforza un soggetto degno d’attenzione; oppure, per essere à la page, che è importante perché la ricca foresta equatoriale compresa sul suo territorio è ormai ampiamente disboscata e a rischio forse più che in Brasile, e che larga parte del “patrimonio mondiale dell’umanità” nella regione dei laghi è gravemente compromesso dal ciclo di violenza che investe il Congo e gli Stati confinanti. Si potrebbe persino sostenere che – dato il notevole impegno finanziario dell’Italia in quello strumento per l’organizzazione della sicurezza collettiva nell’ambito delle Nazioni Unite detto peacekeeping – i recenti episodi di violenza che hanno investito proprio la missione in Congo, la ONUC (Opération des Nations Unies au Congo), sono preoccupanti.

È proprio l’assalto della popolazione locale a quella missione che, nei recenti scontri nel Nord-Est del Paese, costati finora la vita a centinaia di persone, suscita rinnovata preoccupazione insieme a tutto il resto. Una delle principali missioni mondiali di peacekeeping per estensione e costo, operante da circa un ventennio, è stata direttamente implicata nelle violenze che dovrebbe lenire o cercare di lenire producendo sicurezza. Tralasciando le ovvie implicazioni per la stabilità del Paese e il circuito di violenza che opprime la regione, ciò pone seri e rinnovati interrogativi sull’impiego di tale strumento d’intervento e sulla sua funzione. Il fatto è che la funzione del peacekeeping è sempre a rischio di strumentalizzazione da parte delle potenze maggiori: agisce come parafulmine di tensioni laceranti e profonde che le potenze non possono o non vogliono affrontare, scaricandone invece l’onere su questo strumento multilaterale delle Nazioni Unite costato impegno e fatica alla diplomazia internazionale.

Si trascura facilmente, attivandolo, ch’esso è pensato per mantenere la pace – se c’è – e non per farla se non c’è; per sostenere la sicurezza – se c’è – e non per generarla se non c’è. Lo insegnano tutte le missioni fallimentari che ne hanno lacerato l’abito multilaterale e, con esso, un certo prestigio acquisito prima del suo colpevole abuso, del quale la Bosnia è il caso recente più clamoroso proprio nella fallita funzione di proteggere civili che non poteva proteggere in quel contesto di guerra. Il peacekeeping non è un dispositivo di sicurezza qualunque, dispiegabile in ogni condizione. Esso prevede consenso diffuso sul teatro d’intervento, imparzialità mantenuta tra le parti in conflitto e il non impiego della forza coercitiva. Questi elementi sono tutti fondamentali e interdipendenti: si reggono l’un l’altro e cedono tutti assieme. In Congo questi elementi sembrano essere entrati in crisi, riaprendo molti interrogativi sul ruolo assegnato ai circa 18.000 soldati multinazionali. Nell’epicentro delle violenze (Beni) la missione ONUC è stata perfino costretta ad un ripiegamento parziale per sottrarsi alla violenza da parte della popolazione che dovrebbe invece sostenere.

A prescindere dai fatti di cronaca e dalle cause, ciò implica la doverosa considerazione sul grado di tenuta dei pilastri della sua funzione stabilizzatrice, gli elementi fondamentali e interdipendenti. A ben vedere, però, sembra essere proprio il compimento di quella funzione a cedere anzitutto di fronte alle contraddizioni del mandato assegnato all’ONUC dal Consiglio di sicurezza. Esso prevede tra l’altro e tutti insieme – per una missione di peacekeeping, di mantenimento della pace – l’uso della forza per «neutralizzare gruppi armati», la «protezione dei civili» e il compimento di missioni offensive: non a caso il Consiglio di sicurezza ha stabilito tale mandato «agendo sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite» (S/RES/2348 (2017). Ma quel capitolo, si badi bene, non riguarda la «soluzione pacifica delle controversie» (Capitolo VI) e neppure qualcosa che si approssima: riguarda quel che sta oltre la pace e quindi oltre il peacekeeping.

È proprio questo tipo di situazione contraddittoria che in passato ha contribuito a generare la drammatica e farsesca “crisi del peacekeeping”: drammatica perché è costata cara a migliaia di persone, farsesca perché non è serio attribuire ad uno strumento delle Nazioni Unite il proprio fallimento: al netto dei casi specifici è il suo impiego distorto e sbagliato da parte del Consiglio di sicurezza a dover essere considerato, la mistificazione delle sue ragioni e il tradimento dei suoi fondamentali, oltre all’insostenibile divario tra i mezzi impiegati e i fini pretesi. È almeno questo che potrebbe interessarci del Congo: l’ennesima torsione prodotta su un dispositivo di sicurezza collettiva limitato e modesto che solo grazie al mantenimento dei suoi elementi fondamentali ha prodotto i propri successi – li si giudichi preziosi o meno. Attorno a questo concetto di peacekeeping e i suoi elementi fondamentali – l’unico realizzabile – aveva lavorato il grande Dag Hammarskjöld. Morì proprio in Congo, tentando la pace.

Immagine: Goma, Repubblica Democratica del Congo (25 ottobre 2019). Crediti: Ben Houdijk / Shutterstock.com

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