Tanto può accadere da qui al voto del 3 novembre prossimo. E tanto, ovviamente, sarà determinato dal corso delle primarie democratiche, dalla candidatura che emergerà e dal ticket presidenziale che sarà in seguito costruito. Ma oggi Donald Trump è indubbiamente favorito e le probabilità di una sua rielezione appaiono particolarmente alte. Questo per almeno sei fattori, strutturali e contingenti.

Il primo è storico: negli ultimi 120 anni solo in un’occasione, con Jimmy Carter nel 1980, il presidente di un partito appena ritornato alla Casa Bianca non ha ottenuto un secondo mandato. Tanto è difficile per un partito ottenere tre mandati presidenziali consecutivi – i democratici hanno fallito nel 2000 e nel 2016, i repubblicani nel 2008 – quanto è improbabile che l’elettorato non gli conceda una seconda chance, per completare quanto iniziato o per ovviare agli errori commessi.

Il secondo fattore è legato al sistema elettorale, che sovrarappresenta Stati piccoli e poco popolati dove più forti sono oggi i repubblicani. Nelle ultime sette elezioni i candidati repubblicani hanno vinto il voto popolare una sola volta, nel 2000, ma hanno conquistato o mantenuto la presidenza in tre occasioni. I democratici sono cioè costretti a portare alle urne molti più elettori e laddove nel Wyoming repubblicano (lo Stato meno popolato dell’Unione) il rapporto tra grandi elettori presidenziali e votanti è di uno a 190.000, nella California democratica (lo Stato più popolato) questo rapporto è invece di uno a 720.000.

Direttamente legato a questo è un terzo elemento: la mappa elettorale. Anch’essa sembra avvantaggiare Trump e i repubblicani. Come sempre la partita sarà decisa da un numero limitato (tra i 7/8 e gli 11/12) di Swing States. Più numerosi, e a geometrie maggiormente variabili, paiono essere i percorsi che possono confermare Trump alla Casa Bianca. Rispetto al 2016, il presidente può addirittura permettersi di perdere la Florida, o il Wisconsin e uno tra Pennsylvania e Michigan, e preservare una maggioranza dei grandi elettori. O può vedere crollare l’intero firewall dei tre Stati del Midwest e compensare tale perdita con un successo in Minnesota, dove i sondaggi lo danno particolarmente competitivo e dove nel 2016, con un limitatissimo investimento di risorse e tempo, perse con uno scarto di appena l’1,5% dei voti.

Quarto fattore: la popolarità di Trump e l’apprezzamento del suo operato. Che ha raggiunto oggi i livelli più alti dalla data del suo insediamento e si colloca al di sopra di quello di ObamaClinton e sullo stesso piano di quello di Nixon nello stesso periodo del loro primo mandato. Tre presidenti – Nixon, Clinton e Obama – tutti poi confermati con un ampio margine.  È, questa, una popolarità spinta dall’esito di un impeachment che pare in ultimo avere galvanizzato più i sostenitori del presidente che i suoi avversari. E alimentata ovviamente dai dati economici di un Paese che continua a crescere a ritmi del 2-2,5% annuo e con una disoccupazione ormai stabile sotto il 4%. Certo sono dati a cui andrebbero fatte mille tare, sottolineando ad esempio che tutti gli indicatori usati 4 anni fa da Trump per denunciare il declino degli Stati Uniti – deficit, disavanzo commerciale, debito pubblico e privato, bassa crescita del manifatturiero – sono ulteriormente peggiorati sotto questa amministrazione repubblicana. E che la crescita è visibilmente drogata da altissimi deficit, che ormai sfiorano il 5% del PIL, quasi il doppio rispetto a quelli del secondo mandato obamiano. La percezione di una parte dell’opinione pubblica è diversa, anche perché la crescita è finalmente accompagnata da un impatto sulle retribuzioni anche dei percettori di redditi più bassi. Lo vediamo bene nel mercato immobiliare, termometro indiretto ma emblematico delle aspettative degli Americani, con l’indice Schiller Case sui prezzi degli immobili che cresce con regolarità; e lo vediamo negli indici di fiducia dei consumatori, che oggi si collocano a livelli superiori rispetto a quelli di 4 anni fa.

Quinto elemento: la maggiore coesione ideologica e demografica dell’elettorato repubblicano. Che rimane strutturalmente minoritario, anche se il rapporto tra gli elettori registrati come repubblicani e quelli democratici si è un po’ riequilbrato a vantaggio dei primi. Tra chi vota repubblicano, e voterà Trump, grandemente sovrarappresentati sono i bianchi, maschi, over 45. Un segmento elettorale, questo, che ha tendenzialmente tassi di partecipazione più elevati, ad esempio rispetto al multiforme elettorato giovane che è oggi in larghissima maggioranza democratico. E che non è attraversato dalle fratture e dalle divisioni che lacerano il fronte avversario.

E questo ci porta al sesto e ultimo punto: la debolezza della controparte. I democratici sono sì potenziale maggioranza, presente e futura, nel Paese; ma è una maggioranza composita ed eterogenea. Più difficile da mobilitare e disciplinare. Lo si vede bene nel ciclo di queste primarie, dove si ripropone – e per certi aspetti addirittura si acutizza – la spaccatura bipolare tra l’area più radicale di sinistra e il centro liberal. Il rischio, oggi elevatissimo e visibile già nelle reazioni che hanno accompagnato il caos del primo voto nei caucus in Iowa, è che si esca dalle primarie con scorie nel breve non stoccabili. Se Sanders, oggi favorito, dovesse ottenere la nomina è immaginabile e probabile una defezione sia di una parte di elettorato sia di pezzi di establishment chiaramente indisponibili a sostenerne la candidatura. Se, invece, dovesse prevalere una delle figure più liberal e centriste – Buttigieg, Klobuchar o addirittura Bloomberg – è difficile credere che la sinistra sandersiana si mobiliterebbe a sostegno di candidati (e politiche) frequentemente presentati come variabili più moderate d’inaccettabili filosofie neoliberali. Certo, la scelta del candidato (o della candidata) alla vicepresidenza può riequilibrare il ticket e contenere in una certa misura queste dinamiche. Per quanto incongruente (e poco realistica), un’abbinata Sanders-Klobuchar – per fare una banale ipotesi di scuola tra le tante – risolverebbe molte di queste tensioni. E molto può accadere nei mesi a venire, anche se la vicenda dell’impeachment ci consegna un partito repubblicano ormai pienamente piegato a Trump e una base disposta a tollerare e giustificare comportamenti e lessici semplicemente inimmaginabili fino a non molto tempo fa. Ma Trump è indubbiamente favorito e mai in questi suoi tre anni da presidente una sua conferma alla Casa Bianca è parsa tanto probabile.

Immagine: Donald Trump parla alla South New Hampshire University Arena di Manchester (New Hampshire), Stati Uniti (10 febbraio 2020). Crediti: KelseyJ / Shutterstock.com

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