Dopo le avvisaglie delle settimane scorse si è tornati ad una situazione di relativa calma in Siria. Ora la partita si gioca tutta ai confini del Paese. Gli occhi sono puntati sulla parte meridionale, dove sembra sia stato raggiunto un accordo con Israele attraverso la mediazione delle autorità russe: Tel Aviv non ostacolerà l’avanzata dell’Esercito arabo siriano e delle Forze speciali Tigre nella provincia di Deraa, città-focolaio della rivolta armata, a condizione che i miliziani di Hezbollah non partecipino alle operazioni militari e che l’offensiva non si estenda nel Golan.

Ai confini nordorientali invece sono ormai aperte da mesi le trattative tra il governo centrale di Damasco e le autorità curde per reintegrare la regione all’interno della Repubblica araba di Siria; trattative che si stanno intensificando dopo l’azione statunitense, d’intesa con l’alleato turco, che ha portato i miliziani dello YPG (Unità di protezione popolare) a ritirarsi da Manbij.

La stessa volontà di avviare “colloqui incondizionati” è stata espressa anche dal Consiglio democratico siriano, braccio politico delle Forze democratiche siriane (SDF), alleanza formata da combattenti curdi, arabi e turcomanni, armata e addestrata da Washington, che governa la provincia di Raqqa dalla città di Ain Issa. Nel frattempo il governo siriano ha da poco firmato un documento con 100 capitribù che li impegna a «cacciare le truppe straniere», cioè americane, dai territori collocati al di là dell’Eufrate. Da quello che trapela le basi statunitensi potrebbero spostarsi sulla sponda irachena già nei prossimi mesi se gli iraniani lasceranno anche loro il Paese.

Questo braccio di ferro si è giocato indirettamente nei giorni scorsi ad Abu Kamal, città collocata sul corridoio sciita che collega Teheran a Beirut passando da Baghdad e Damasco. Occupata da Daesh e riconquistata dall’Esercito arabo siriano in collaborazione con le milizie sciite vicine alla Repubblica islamica dell’Iran, questa città altamente strategica ai confini con l’Iraq è stata colpita da un raid della coalizione internazionale Usa – anche se la CNN ha accusato le forze di Tel Aviv di esserne responsabili – uccidendo oltre 40 soldati. Per la Casa bianca si tratta di un atto militare che mira a mettere pressione sul governo di Teheran e a portare al tavolo delle negoziazioni il ritiro di entrambe le nazioni dal Paese. Ma anche qui il Cremlino dovrà giocare un ruolo diplomatico raffinatissimo per mettere d’accordo americani e iraniani, i quali in questo momento seguono agende geopolitiche diverse ma estremamente connesse tra loro.

Rimane aperto solo il fronte di Idlib, alla frontiera con la Turchia. Su quel fronte pare che la partita si giochi ad Astana, in Kazakistan, dove a partecipare ai negoziati come protagonisti sono iraniani, russi e turchi, al punto che gli americani non sono neppure invitati come osservatori. E così dopo anni di guerra, 6 milioni di rifugiati, centinaia di migliaia di morti, sembra che la geografia della Siria potrebbe tornare ad essere identica a quella antecedente l’inizio del conflitto.

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